lunedì 26 ottobre 2015

Letture: 2. Furio COLOMBO, La fine di Israele, Il Saggiatore 2007.

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Si noti che anche questa “Lettura” è del 2007. Probabilmente un libro comprato all’epoca, insieme a quello di Luzzato, quindi depositato su uno scaffale, e dimenticato. Avverto i miei Cinque Lettori che sarei molto dispiaciuto se in loro si formasse la convinzione che questi argomenti costituiscano il mio principale o prevalente interesse. Mi sono trovato costretto ad occuparmi della materia in conseguenza di attacchi mediatici inauditi che mi sono piombato addosso per aver sostenuto che deve esistere, anche su questi argomenti, per ognuno la libertà di pensiero e di espressione. Le reazioni ottenute, e i pericoli corsi, mi hanno dato la prova sperimentale che in Italia, e non solo in Italia, non esiste libertà di pensiero, di sua manifestazione pubblica (e in Germania neppure in lettere private), di ricerca, di insegnamento, di critica politica. Occorrono altre prove oltre a quelle che già possiedo e che sono pubbliche... O meglio, la neolingua si avvale di artifici per sostenere che il chiaro dettato dell’articolo 21 della costituzione italiano o della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo non è stata clamorosamente violata. Il cavallo di battaglia di cui si servono è il “discorso dell’odio” o addirittura il diritto dei morti sui vivi, il diritto degli zombi che mandano in galera i vivi e ne distruggono le esistenze. Ma abbiamo già trattato questi argomenti e torneremo ancora a trattarli diffusamente e analiticamente. Qui per stare a Colombo mi occorre dire che in un vecchio post me ne ero già occupato, ma mi ero fermato alla prima pagina e non ero andato oltre, dopo aver letto di una sviolinata colombiana allo «Stato ebraico di Israele». Incredibile a dirsi, ma questo post, rimasto in bozza, finì all’attenzione dello stesso Illustre Scrittore e Giornalista Furio Colombo, che ne disse quel che disse, su “Il Fatto Quotidiano”, dove non mi fu concesso il diritto di replica...

Non voglio però adesso rivangare cose passate, ma ritorno sul libro nel contesto di questa nuova rubrica, dove annoto, in forma di bozza, poco curandomi dell’eleganza formale, quanto via via mi passa per la mente mentre scorro le pagine. La lettura di un qualsiasi libro non è o non dovrebbe essere l’assorbimento passivo di ciò che pagina dopo pagina si legge. La lettura dovrebbe essere critica e reattiva. Se leggere non significa questo, allora è molto meglio per la propria salute, anche mentale, una passeggiata all’aria aperta, o una qualsiasi attività fisica. Non dobbiamo poi avere paura dei nostri stessi pensieri, che sorgono come immediata reazione a ciò che si legge, ben sapendo che abbiamo sempre il sacrosanto diritto di correggere le nostre prime impressioni. In genere, alla Verità ci si arriva per gradi, per tentativi, per errori e correzioni di errori. È il processo della mente di ognuno di noi. Quanto poi alla forma linguistica non dobbiamo certo aspirare a raggiungere le sublimi vette di quel fine dicitore che risponde al nome di Furio Colombo, così attento non ai miei argomenti, o alle mie repliche ai suoi di argomenti, ma alla forma delle mie bozze di quella che ho chiamato più volte “scrittura sull’acqua” che preferisco alla scrittura tipografica perché a differenza di quest’ultima mi consente una continua plasmatura, come una creta che può essere sempre rimodellata sul tornio fintantoché la materia non si solidifica e finisce nel... forno, non quello crematorio, ma quello che usano i ceramisti per ottenere il loro vasellame.

“Conciossiacosaché”: è l’inizio del Galateo di Monsignor Della Casa e non ricordo chi sia stato lo scrittore che gettò subito via il libro per aver trovato un simile inizio. Del pari il libretto (127 pagine) di Furio Colombo inizia con la solita citazione di Auschwitz per bocca di tal Vittorio Dan Segre, da poco passato a miglior vita e la cui quiete non intendo qui assolutamente disturbare. La nostra mente è condizionata dalle prime impressioni, spesso erronee e da correggere, ma tali comunque da restare impresse nella memoria. Era non so quale trasmissione televisiva ma di questo signore, che teneva anche un suo blog nel quale ero intervenuto per porgli una domanda, parlava dell “guerra di indipendenza” – alla quale prese parte – per definire quella che per i palestinesi è la Nakba e che Ilan Pappe, in un libro che abbia già letto e citato numerose volte, chiama «La pulizia etnica della Palestina»... Ecco, poco sopra parlavo di “neolingua”: ciò che per gli uni è “pulizia etnica” che equivale a “genocidio” (vedi Pappe), non inferiore a quello di Auschwitz se non deve presumersi per legge (Colombo) un “genocidio” che sia più “genocidio” di altri, come la “morte” ora “più morte”, ora “meno morte”: queste distinzioni in natura non esistono! La vita, durante il suo svolgimento, è certamente diversa, per agi e godimenti, da individuo a individuo, e gli uomini lottano ferocemente fra di loro per avere una vita più ricca di potere e godimenti rispetto ad altri uomini, ma la morte quando giunge è un istante di passaggio da una condizione di vivente a quella di non vivente: in questo senso, come diveva Totò, è “a livella”. Vi è poi chi della morte fa industria e vi costruisce perfino un Impero, ma è un altro libro, di cui ci occuperemo altra volta.

(segue)

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