giovedì 26 giugno 2014

Recensione: Fabio Vander, Posizione e movimento, Mimesis Edizioni, Milano 2013

Fabio Vander, Posizione e movimento, Mimesis Edizioni, Milano 2013, pp. 169, € 16,00.

Questo libro ricostruisce e indaga i rapporti tra il pensiero (e azione) strategico-militare e quello politico: una prospettiva frequentata – e ben frequentata – per secoli, la quale, da metà del secolo passato, è sempre meno trattata. Analogamente al terzo elemento del rapporto: quello dell’organizzazione e dell’ordine comunitario. Come c’è una relazione tra guerra e politica, così ve n’è un’altra – non solo, va da sé, tra politica e organizzazione istituzionale (e sociale) - ma anche tra guerra e forma politica, pensiero strategico e modellazione delle sintesi politiche.

In particolare il rapporto tra strategia e politica (quello con l’istituzione è sullo sfondo), è ormai raramente considerato, anche se, contrariamente a tale rarità contemporanea, nei pensatori maggiormente considerati nel libro cioè Gramsci, Schmitt e Jünger, ne è evidente e decisiva l’importanza. Per Schmitt basterebbe ricordare la categoria dell’amico/nemico, il che significa, in primo luogo, che ogni attività politica presuppone la guerra come possibilità reale; per Jünger tale rapporto è connaturale a gran parte dell’opera; per Gramsci è ripetutamente sottolineato dal pensatore sardo.

L’esperienza della Grande guerra infatti, con il suo immane scontro di grandi masse umane e l’impiego di mezzi spropositati determinava riflessioni e discussioni che impegnavano molti tra i più importanti politici e militari dell’epoca, compreso l’italiano Dohuet, più volte ricordato da Vander.

L’autore insiste sul carattere dialettico della guerra e della politica: amico/nemico; offesa/difesa; pace/guerra; vittoria/sconfitta. La scriminante tra questi opposti sfocia concretamente in situazioni in cui l’uno comprende anche l’altro. Come scrive l’autore “Se non si coglie il senso autentico e fondativo di questa dialettica della storia non si capisce nulla della storia in primis, ma poi anche della guerra, della politica, della filosofia, della vita.

Antonio Gramsci
Di qui il nostro interesse per l’approfondimento del nesso fra teoria e prassi, fra dialettica e guerra. Non si tratta di una esornazione filosofica, ma di una necessità per la corretta intelligenza dei fatti, nella fattispecie di una battaglia, di una guerra, di un dopoguerra”.

La dialettica è il “paio di occhiali” con cui leggere guerra e politica, e così anche le vicende della prima guerra mondiale e del successivo dopoguerra.

Vander cita a più riprese l’omologia tra arditismo e massa dell’esercito da un lato, offesa/difesa, avanguardie rivoluzionarie e popolo dall’altro. In effetti l’esaltazione delle elite militari rispetto al ruolo della massa dell’esercito, trascura che, se singoli scontri e anche battaglie possono essere vinti per l’impiego tattico di reparti scelti, quel che conta è in definitiva l’esito della guerra. La quale non può essere vinta se non “si tiene” il rapporto tra direzione politico-militare e popolo (in armi e no), come proprio la Grande Guerra (e tante altre) prova. La Russia zarista perse la guerra con gli Imperi centrali quando le fanterie russe si rifiutarono di marciare contro quelle austro-tedesche (e gli operai di produrre le armi necessarie); il Reich guglielmino quando i marinai a Kiel e i soldati in trincea presero ad ammutinarsi.

L’autore nota che Gramsci l’aveva capito bene. Malgrado criticato “per altro a sproposito, cioè con l’accusa di non aver apprezzato il profilo della guerra come «momento epocale di nazionalizzazione delle masse»; il che non solo non è vero, ma …. il pensiero politico gramsciano è davvero intelligibile solo con riferimento diretto ai problemi nuovi scaturiti dalla guerra mondiale (di cui la massificazione è elemento centrale) e particolarmente da Caporetto”. È nota l’influenza su Gramsci della “guerra di posizione” praticata sui fronti occidentale e italiano, e come sia richiamata più volte quale paradigma della rivoluzione possibile nell’occidente europeo. Gramsci ne deduceva che “non può esserci offensivismo scriteriato, sempre esso deve mediarsi con la preparazione , con la “guerra di posizione”… il vero arditismo, cioè l’arditismo moderno, è proprio della guerra di posizione, così come si è rivelata nel 14-18”… Dunque la guerra, a smentita delle letture superficiali (militari come politiche) aveva lasciato una ben precisa lezione: “arditismo” e “posizione”, assalto e preparazione sono ben compatibili”. Il pensatore sardo lo traduceva, scrive Vander, nell’azione del partito rivoluzionario: «la più diretta conseguenza politica della guerra era stata dal suo punto di vista, che non si poteva più puntare sull’arditismo politico, sulle azioni decise di piccoli gruppi rivoluzionari, su “organizzazioni armate private… Altrimenti si finisce proprio come con l’offensivismo di Cadorna: “le ‘avanguardie’ senza esercito di rincalzo, gli ‘arditi’ senza fanteria e artiglieria, sono anch’esse trasposizioni del linguaggio dell’eroismo retorico; non così le avanguardie e gli arditi come funzioni specializzate di organismi complessi e regolari”. La trasposizione in termini politici della lezione strategica “avveniva in Gramsci secondo un profilo peculiare e fondamentale. Quello della qualità della rivoluzione. In occidente. Dopo la guerra mondiale”. Non servono intellettuali senza masse (avanguardie) ma corpi organizzati secondo il primato della politica. Col che si ricongiungeva al giudizio sull’Italia moderna caratterizzata da rivoluzione senza masse o “passiva” come scritto già da Cuoco. Con minoranze intellettuali con poco o punto seguito popolare. Il volontarismo delle minoranze politiche è «il limite storico della modernità italiana: e proprio dal Risorgimento al fascismo. precisamente perché quel “volontarismo”, quell’azione di minoranze decise, “è stato un surrogato dell’intervento popolare”. Cioè un surrogato della democrazia. Sempre rivoluzioni senza masse in Italia».

Ne consegue, secondo Vander, che proprio alla sua riflessione strategico-politica sulla guerra di posizione, le organizzazioni popolari come trincee e il “primato” della difesa e del “logoramento”, dobbiamo il concetto di egemonia che si definisce «l’alternativa occidentale alla rivoluzione in Oriente. L’equivalente “in politica” della “guerra di posizione” era infatti l’ “egemonia”. Ed egemonia significa la conquista del consenso, con strutture quali “i grandi partiti politici e i grandi sindacati economici.

In questo senso rigoroso può parlarsi di “politica-egemonia” ovvero dire che il concetto di egemonia si sviluppa in Gramsci in sintonia con quello di democrazia. Era proprio questo grande retroterra peculiarmente occidentale a rendere impraticabile la “rivoluzione permanente”. L’offensivismo riproposto sul piano politico dopo il 1918 da trotskisti, soreliani e sindacalisti … era per Gramsci un anacronismo, l’atteggiamento di chi non aveva saputo cogliere la novità dei tempi, imposta a tutti dalla guerra».

Essenziale in tale quadro è che la contrapposizione amico/nemico è sempre relativa, ossia che “nessuna vittoria politica in Occidente è decisiva”. nel senso dello sterminio del nemico o almeno del suo annichilimento quale entità politica; una lezione che, in particolare la seconda guerra mondiale, ha confermato, con la Germania debellata ma riunificata dopo oltre quarant’anni e ritornata ad essere – anche se in forma assai meno inquietante – la maggiore potenza continentale europea. E l’Unione Sovietica, già vincitrice ma dopo perdente nella “guerra” fredda (che più di “posizione” non si può) cioè di un lungo logoramento culturale ed economico prima che politico. Con la conseguenza di avervi perduto buona parte del territorio e quasi metà della popolazione.

Due considerazioni finali in margine al libro di Vander. La prima è che il rapporto direzione politica - masse popolari è il medesimo nella politica e nella guerra. La sintesi politica – come scriverebbe Miglio - è robusta se funziona il “circuito” tra vertice e masse, corroborato da integrazione (e consenso). Per dirlo alla Clausewitz occorre che almeno due degli elementi del “triedro della guerra” e cioè intenzione politica (il governo) e sentimento politico (il popolo) vadano di pari passo, senza cedimenti od opposizioni.

La seconda: l’attualità della lezione (già di de Maistre) ma in particolare dell’ultimo Gentile, che la guerra è uno scontro di volontà, e la vittoria è il prevalere dell’una sull’altra. Onde per conseguire la vittoria è essenziale de-comporre l’avversario, in particolare togliendo al governo il consenso dei governati (e quasi sempre, anche quello di parte della stessa classe dirigente). La quale così – in termini gramsciani – perde l’egemonia; e in generale  la capacità di resistere ed agire politicamente. De-composizione che può attuarsi con i mezzi più vari, da quelli culturali a quelli economici, e forse anche, in futuro, con strumenti informatici. L’essenziale della guerra – la “costante” della stessa – è piegare la volontà dell’altro, del nemico. La nuova frontiera di certa postmodernità è far credere che il nemico non esiste, il che è proprio la realizzazione dello scopo di questo, di disarmare la volontà e la capacità di resistere. Cosa che questo libro ci aiuta a capire.

Teodoro Klitsche de la Grange