giovedì 23 ottobre 2014

Considerazioni di natura filosofico-giuridica sull’uso del Logo Cinque Stelle. Proposte di discussione per Attivisti e non. - A proposito della “espulsione” Aquilino e problematica connessa.

Mi giungono via web informazioni circa le modalità di «espulsione» di Andrea Aquilino dal Movimento Cinque Stelle. Chi è Andrea Aquilino? Lo si può definire un cattolico attivamente impegnato dentro il Movimento Cinque Stelle sul tema dei diritti etici, in particolare sul tema della famiglia, del matrimonio tradizionale, fra uomo e donna, ma anche sui temi della libertà di pensiero ed espressione. L’«espulsione» sarebbe avvenuta nelle modalità tipiche di una lettera raccomandata che a nome di Giuseppe detto Beppre Grillo inibisce l’uso del logo di esclusiva proprietà privata dello stesso Beppe, alla quale è stata spesso manifestata la mia personale simpatia e adesione. Ma ciò non mi impedisce di ragionare su un atto che mi sembra sbagliato e lesivo per gli interessi politici generali del Movimento, sotto attacco da parte dei nemici in un tentativo di produrre anche dentro il Movimento la solita balcanizzazione che osserviamo sugli scenari geopolitici.

Uso le virgolette in «espulsione» perché vado da sempre dicendo in giro che nel Movimento Cinque Stelle non esistono le «espulsioni», proprie di tutti gli altri partiti. L’unico strumento di cui Beppe dispone per “governare” il Movimento è l’inibizione dall’uso del Logo. Ma quando e come ciò può avvenire. A chi può essere rivolto? Direi a singoli candidati principalmente al momento della presentazione di Candidature Cinque Stelle alle varie elezioni che si svolgono sulla base della leggi elettorali vigenti per il Parlamento europeo o nazionale, per Regioni, Comuni, Municipi... Ed anche in questo caso non interrompe la durata del Mandato o fa decadere l’Eletto con il simbolo Cinque Stelle.

Vale anche la consueta prassi commerciale. Come non posso mettere il marchio Algida a un gelato da me prodotto in casa e messo in vendita per le strade, così non posso aprire un sito, una televisione o un giornale con il simbolo Cinque Stelle senza essere autorizzato da Beppe Grillo, che potrebbe subito far causa. Né posso (vedi Becchi, che però non ha mai fatto questo) partecipare a un talk show e dire che ciò che io dico e penso è la posizione ufficiale del Movimento Cinque Stelle. Se poi appaiono parlamentari eletti con il Logo Cinque Stelle, potrà esserci poi la solita procedura disciplinare interna ai gruppi parlamentari, ma non si può certo annullare il risultato elettorale e non vi è decadenza dall’ufficio.

Vi è poi un caso minore, ma significativo. L’uso di distintivi, magliette e simili, che vengono posti in vendita e sono una delle fonti di finanziamento del Movimento. È ormai invalso l’uso che nelle riunioni ufficiali e pubbliche gli “attivisti certificati” usino un distintivo per potersi riconoscere fra di loro. Non sembri ozioso il caso. Mi ero trovato a Londra a partecipare a varie manifestazioni di carattere politico e mi ero chiesto, anzi ho chiesto se potevo mettere la spilla (acquistata due euro l’una) durante i cortei per le strade o nei Forum all’interno di sedi universitarie inglesi. Non se se è stato veramente interpellato lo Staff di Grillo, ma qualcuno mi ha risposto di non preoccuparmi e che potevo tranquillamente usarlo, se volevo. Ne ho fatto assai poco uso, perché non mi piace in genere portare addosso marchi e distintivi: neppure l’onorificenza di Cavaliere se mai me la concedessero! Un caso aggiuntivo mi è capitato in una sala d’albergo, durante una conversazione con un gruppo di amici inglese, organizzati in una loro propria associazione, forse l’UKIP. Mentre spiegavo nel mio cattivo inglese cosa era il Movimento Cinque Stelle, almeno secondo la mia interpretazione, facevo vedere il distintivo. Ed ecco che il mio dialogante interpretava la cosa come un regalo e quindi si appuntava sul petto il distintivo ed andava poi così in giro per Londra, ma non era certo un Attivista inglese del Movimento Cinque Stelle. Non era stata mia intenzione fare il regalo, che aveva un costo da me pagato, ma ormai mi sembrava assai scortese richiederlo indietro.

È qui il caso di menzionare anche l’art. 49 della costituzione, mai applicato con una legge di regolamentazione. Esso però statuisce abbastanza chiaramente (o almeno così la pensa una certa dottrina e ignoro se vi sia giurisprudenza né ho voglia di farne ricerca) che si tratta di un “diritto” che ogni cittadino italiano ha di iscriversi a partiti e movimenti politici, supposti tutti come legali e democratici. Al suo interno un cittadino può far valere a confronto le sue idee e opinioni politiche, le sue prese di posizioni in ordine ai temi più disparati. In questo modo partecipa, in modo democratico e perfettamente legale, alla formazione della politica nazionale. Beppe dunque non concede un favore a chi aderisce al Movimento, ma è chi aderisce che si avvale di un suo diritto, che può essere disciplinato da una normativa di partito che deve essere ritenuta “democratica”. Non vorrei tediare oltre su questo punto.

Venendo dunque alla Lettera, per quel che ne so dalla rete, essa non entra minimamente sul merito, cioè sulle posizione “cattoliche”, ossia religiose di Aquilino e altri. Gli si dice soltanto che non può usare il Logo di proprietà Beppe Grillo. Non entra per nulla sulla questione di merito: la posizione del Movimento sul tema della famiglia, del matrimonio, della sessualità, diciamo sinteticamente sui “temi etici”, di cui nulla si dice nei famosi 20 punti di Programma e dunque si deve supporre che libero è il dibattito e tutte le lecite le posizioni espresse. Con il ritiro del Logo Beppe ha forse inteso censurare e combattere le posizioni cattoliche di Aquilino sul matrimonio e le coppie gay? Nulla di questo è detto esplicitamente nella lettera, ch’io sappia, ma all’interno del Movimento vi è chi interpreta che sarebbero vietate le correnti, fazioni, sottogruppi e simili. Questo addebito è però negato dagli interessati, che anzi obiettano come a un dichiarato sito di Lesbiche, Omosessuali e Transsessuali non sia stata fatta analoga contestazione del Logo. Dunque 9 milioni di elettori Cinque Stelle son tutti Lesbiche, Omosessuali, Transessuali? Non direi proprio! Ed allora qualcosa non quadra.

Esprimo subito la mia posizione, interna al Movimento, quando e se mai sarà possibile un ampio dibattito e confronto su questi temi che direi stanno passando per spallate lobbistiche. È come se un gruppo gay all’interno del Movimento si fosse metodicamente organizzato per imporre le proprie vedute sulla testa di tutti. Da qui legittime reazioni che vengono fuori un poco alla volta e in modo non organizzato e disperso. Ahimé, anche all’interno di Movimenti in apparenza i più democratici e aperti non si può mai escludere la presenza di camarille, cordate e simili. Per le ultime europee si legge addirittura che ai candidati sarebbe stato fatto firmare una dichiarazione con la quale si impegnavano sulle posizioni degli Omosessuali e affini. Io sono stato pure candidato alle Europee, ma non ho firmato e mai avrei firmato una dichiarazione simile, non ne ho neppure saputo e se vi è stata, potrebbe essere una delle spiegazioni della mia mancata elezione alle nostre “primarie”, ma è anche vero che mai mi sono dato da fare per mie proprie campagne elettorali. È però un fatto gravissimo, che se davvero avvenuto invaliderebbe tutto il sistema...

Dicevo dunque della mia posizione sui temi etici, per quanto fino a questo momento abbia potuto riflettere in modo non preconcetto e dogmatico. Al riguardo la posizione più nota ed elaborata è quella tradizionale cattolica sul matrimonio e la famiglia. Non la si può ignorare in nessun caso, ma non è detto che sia la sola possibile in contrapposizione alla filosofia politica e civile degli Omosessuali e affini. Provo a enunciarla in modo schematico e salvo ulteriori approfondimenti. Che ognuno di noi nasca da un uomo e una donna è un fatto incontrovertibile. È sempre stato così da quando esiste la specie uomo, sia essa intesa come creata da Dio o un prodotto della Evoluzione. Ed è non meno incontrovertibile che se un uomo e una donna smettono di procreare non sarà possibile la continuazione della vita umana sulla terra... E forse non sarebbe per l’Universo e la Natura un grande male, anzi cesserebbe il Male sulla terra.

Per quanto riguarda gli Omosessuali e Affini è da chiedersi e comprendere: cosa vogliono veramente e propriamente? Se si tratta di un complesso di diritti, anche patrimoniali, non è questa la linea di resistenza, almeno la mia. Il diritto alla reversibilità della pensione in favore della persona a carico e senza reddito proprio, che rischierebbe la fame e l’indigenza, io lo riconoscerei a chiunque (finanze permettendo), a prescindere da legami di natura sessuale. Potrebbe trattarsi di un amico, compagno di lotta e di studi... Tutti ricordano il lungo sodalizio Marx Engels, non di natura omosessuale. Engels aveva risorse economiche, mentre Marx era nell’indigenza. Adesso scandalizzo chi legge: riconoscerei un simile diritto perfino al proprio cane o un ente morale privo di fondi... Era il caso della “manomorta”, poi abolita per legge... Le chiese erano divenute i più grandi proprietari... Per dare potere ai genitori, che lo hanno perso del tutto, io riconoscerei loro il pieno diritto di disporre dei loro beni, diseredando i figli degeneri e ingrati... ormai avvezzi alla filosofia del solo diritti e niente doveri. E tutti sappiamo di tanti vecchi abbandonati a marcire negli ospizi, se non peggio...

Cosa vogliono dunque questi Signori? Forse mi sbaglio, ma ho l’impressione che non si tratti solo di diritti patrimoniali e protezioni giuridiche, ma vogliono la piena assimilazione e confusione con il matrimonio uomo-donna, senza essere una coppia eterosessuale uomo-donna basata sulla filiazione e la discendenza all’interno di quella unità chiamata famiglia, unità perlopiù ma non esclusivamente da vincoli di consanguineità e poi ancora legata da vincoli di parentela fino a costituire veri e propri clan e perfino tribù... Le “nazioni” storiche come le conosciamo, distinti dai “popoli”, hanno il loro vincolo nella consanguineità e nella procreazione uomo donna dentro una situazione chiamata matrimonio e famiglia. Per far vedere che non sono appiattito su posizioni cattoliche io non sarei neppure contrario alle quattro mogli dei musulmani, se è cosa radicata nell’eticità di un popolo.

Se gli Omosessuali, lesbiche e transessuali vogliono questo è come se una gallina volesse essere un gatto: cosa assurda e contro natura. Inoltre vi è una difficoltà insormontabile: il rapporto sessuale uomo e uomo, oppure donna e donna (sui transessuali non mi ci arriva l’immaginazione) non produce un figlio. E dunque se lo vogliono, entro l’istituto del matrimonio,  che rinvia necessariamente alla filiazione, dove lo vanno a trovare? Lo importano dall’Africa? Lo rapiscono per strada? lo comprano da coppie eterosessuali specializzate nelle produzione di prole a pagamento? Mi è capitato di leggere in un Forum che Omosessuali, Lesbiche e Transessuali sarebbero la grande maggioranza del paese. Io non ho statistiche scientifiche al riguardo, ma se così fosse l’acquisizione di prole sarebbe una produzione industriale di massa, o una rapina di massa... Tutte le notizie che si leggono sul rapimento di bambini nel mondo, per quanto strane e terribili, acquisterebbero una loro tragica, terribile spiegazione. Sto leggendo l’ultimo libro di Ida Magli, che in una pagina parla di un italiano e due francesi che sarebbero stati linciati in Madagascar perché sospettati del rapimento e traffico di bambini da cui verrebbero espiantati gli organi... Nelle stesse pagine si parla di bambini rapiti, privati degli organi e poi ritrovati fra le discariche delle immondizie...

Ma se non vi è un limite alla pretesa dei diritti – penso a Rodotà specializzato nei “diritti” –, mi chiedo perché mai non dovrebbe essere riconosciuto il diritto alla pedofilia, attualmente criminalizzato. Non essendoci padri (ve ne sono sempre stati anche di degeneri) che non difendono con la propria vita i propri figli, è chiaro che la prole di ogni parte del mondo globalizzato è alla merce di chiunque se ne voglia appropriare e fare l’uso che meglio crede. Non saprei dove ritrovare un brano di Nietzsche letto parecchi anni fa, dove si dice addirittura che il segreto dell’eccellenza della civiltà greca si trova nella pedofilia: si amavano tanto i bambini e gli adolescenti, non solo in senso sessuale, da curare ogni aspetto della loro educazione.

E dunque, cosa vogliono questi signori? Vogliono “distruggere”, per non so quali traversie della loro psiche, la famiglia tradizionale basata su un uomo e una donna che in condizione ordinarie generano figli che poi nutrono, accudiscono, allevano, educano, esercitando anche una funzione che non è soltanto della famiglia, ma anche è soprattutto di una società e comunità, che vuole preservarsi e continuare ad esistere. Non di diritti si tratta dunque, di diritti negati che solo altri possiedono, ma di una vera e propria aggressione degli uni allo statuto esistenziale degli altri. Presentare tutta la faccenda come una rivendicazione di “diritti” è al tempo stesso sofisma, inganno, ipocrisia... Di “diritti” ormai non ve ne sono più per nessuno... La “civiltà del diritto” è al suo tramonto... Si avanzano pretese, anche le più assurde e contraddittorie, e si dà ad esse il nome di “diritti”... Una ideologia perversa, che ha i suoi ideologi, ha portato alla distruzione di ogni idea di società e comunità, che da sole al loro interno possono produrre concreti diritti dando ad essi immediata applicazione, riconoscimento, vigenza, senza bisogno di giudici, avvocati, legislatori... Forse solo di politici, ma quelli di una volta, che ora non esistono più... Si continuano a chiamare politici, ma sono agenti delle banche, delle lobby, spesso addirittura agenti dei servizi segreti, come Bel Alì deposto presidente della Tunisia... Io dissi una volta al riguardo, in un convegno: per uno di cui sappiano e siamo certi, quanti altri ve ne sono di cui non sappiamo? Vi fu una fragorosa risata e fu risposto che potevano essercene in quel momento e in quel luogo pure fra gli stessi convegnisti senza che potessimo saperlo!

Il Movimento, dunque, non ha ancora una posizione a questo riguardo, ma non ne può uscire “espellendo” questo o quello. Io mi auguro che Beppe Grillo, leader indiscusso e solitario, senza un vero gruppo intorno a se, passi presto a pronunciarsi su questo tema, come ha appena fatto per l’immigrazione e l’euro. E dica agli italiani se i figli possono ancora farli al modo antico, o devono importarli dall’Africa ovvero trasformarli da orfani di genitori ammazzati in Siria, Iraq... in figli affidati a coppie che non possono produrne di proprie... Che sia un larvato ritorno alla schiavitù non mi sembra sia cosa insostenibile... Le cose e le situazioni sono spesso le stesse e mutano solo di forma, e mutando sono spesso peggiori di come erano nelle forme precedente...

Invito pertanto, al termine di questa bozza, gli Amici del Movimento a non abbandonare l’aggregazione, rispedendo magari a Beppe il suo Logo, ma dicendogli che non si tratta di uso improprio o non autorizzato di un simbolo, ma dell’uso che lo stesso Beppe deve saper fare del voto che gli è stato dato. Questo non è e non vuole essere un attacco denigratorio a Grillo, i cui meriti politici ho sempre decantato, ma di una lecita e pubblica critica alla decisione improvvida affidata al suo Legale, che non giova al Movimento. Questo deve continuare a crescere non potendo andare a... “consociazione” con altri partiti. È necessario pertanto che al suo interno trovino spazio tutte le contrapposizioni di una società e che nel confronto pacifico, rispettoso, onesto, leale trovino la giusta composizione. Sappi comunque Beppe che per quanto mi riguarda, coi tempi che corrono, mi guardo bene da ogni uso del Logo... Mi sono limitato a metterlo a Circo Massimo, ma fuori di quel perimetro me lo sono tolto... E così per tutte le agorà e i meetup ufficiali. Se poi porteranno alle sua attenzione, come hanno fatto ieri sera i Signori Omosessuali, gli articoli diffamatori di Repubblica, che ancora circolano in rete e che vengono sempre tirati fuori dai  miei interlocutori quando restano a corto di argomenti, gli farò io scrivere dal mio Legale per notificargli i decreti di assoluzione con formula piena e gli atti di causa contro il quotidiano La Repubblica (proprietario, giornalista, direttore).

NOTA E AVVERTENZA
(1ª versione: scritto di getto, mi riservo ulteriori correzioni, di refusi e di sostanza, di forma, ecc. secondo il mio stile di scrittura online, spesso enunciato e distinto dalla composizione tipografica. - PS. Il testo non è poi stato più rivisto fino alla data odierna, 10.5.16, nella quale vengono corretti solo evidenti refusi, ma non viene più rielaborato il testo, come avendone tempo, allora ci si riprometteva. Avendo adesso quel testo, come allora uscito di getto dalla tastiera e sotto la pressione dell'evento. Infatti, quel testo, così com'era, acquista oggi un valore probatorio di testimonianza e pertanto non più essere più elaborato e sviluppato. Me ne duole, perché il tema è delicato e richiede approfondimenti, elaborazioni, documentazione... È anche vero che si tratta di questioni fortemente divisive, ma non credo che si possa o si debba tacere per il timore di mettere a rischio le proprie amicizie e conoscenze.)

lunedì 6 ottobre 2014

Teodoro Klitsche de la Grange: «Miti giuridici e regolarità politiche»

* Questo testo esce contemporaneamente sulla rivista Online "Behemoth”.
MITI GIURIDICI E REGOLARITA’ POLITICHE

Sommario: 1. La mitologia giuridica secondo Santi Romano. –  2. Mito e miti giuridici 3. Concezioni di Mosca e Pareto 4. Distinzioni dei miti 5. Miti giuridici di un tempo ed attuali 6. Loro distinzione fondamentale 7. Miti giuridici e regolarità della politica.

1. La mitologia giuridica secondo Santi Romano. – Nei “Frammenti di un dizionario giuridico”, Santi Romano si poneva la questione della mitologia giuridica. Rilevava che “Il mito è stato particolarmente, anzi quasi esclusivamente, definito e studiato in relazione alle credenze religiose, che certo ne offrono gli esempi più tipici e caratteristici. Esso però si riscontra anche in campi diversi e, fra gli altri, in modo molto interessante, in quello del diritto”; considerazione ovvia dato che il mito, soprattutto della specie “politico” ha svolto un ruolo assai rilevante nel pensiero (e nelle vicende) in particolare della prima metà del XX secolo. E scriveva che “C'è tutta una mitologia, che ben può dirsi giuridica, e da questo punto di vista sembra che possano utilmente valutarsi una serie di opinioni e di principii, che, di solito, sono presi in considerazione sotto altri aspetti” . Subito dopo  notava che “il mito non è verità o realtà anzi è l'opposto e quindi la mitologia giuridica è da contrapporsi alla realtà giuridica, che in apposita voce di questo dizionario si è cercato di definire” (1). E approfondendo la distinzione (definizione) del mito scriveva che “non tutte le concezioni, le opinioni, le credenze che si ritengono giuridiche, ma che tali effettivamente non sono, perché contrarie o estranee ad un ordinamento  giuridico, sono da classificarsi fra i miti” .

Sulla linea di note concezioni, il giurista siciliano sottolineava il senso mistico-fideistico del mito .
Il mito giuridico ha connotati distintivi rispetto al mito (come genere) “Il mito religioso è essenzialmente popolare; il mito giuridico può formarsi e limitarsi entro una cerchia più ristretta di persone, ma anch'esso non è opinione singolare o isolata” (quindi è sociale, non individuale) . Peraltro “Non è nemmeno da escludere che artefici di miti possono essere dei giuristi, cioè coloro che pure dovrebbero essere in grado di giudicarli come tali e respingerli” . Le fonti del mito sono diverse “e non sempre è facile discernere quando essa ha origine teorica, quando pratica, e quando, come spesso avviene, l'una assieme all'altra”. La mitologia giuridica fiorisce specialmente nelle situazioni rivoluzionarie “In questi periodi, nei quali si tenta di abbattere gli ordinamenti vigenti sostituendoli  con dei nuovi, ha naturalmente scarsa importanza la realtà giuridica, nel senso che si è definito, cioè il complesso dei principii, delle ideologie e delle concezioni che stanno a base del “ius conditum”, e invece vengono in prima linea le ideologie che combattono per informare di sè il “ius condendum” ”.
Le assemblee costituenti sono in gran parte formate da persone sprovviste di cultura giuridica e “costituiscono l'ambiente più adatto alle più varie mitologie giuridiche, così a quelle che hanno carattere del tutto popolare, come a quelle di origine più o meno dottrinaria. Queste ultime anzi hanno il più delle volte maggiore influenza delle prime”. Questo perchè mentre quelle popolari sono vaghe ed imprecise “quelle dottrinali invece hanno la rigidezza dei dommi, assumono una certa forma logica, e si rivelano perciò suscettibili di essere tratte a conseguenze ed a sviluppi, che ad esse conferiscono una maggiore parvenza di verità” .

Nel porsi poi per i miti giuridici il problema, già proposto per quelli religiosi, ovvero se siano perciò più spesso retaggio di popoli particolari, Santi Romano scrive “si potrebbe fondatamente ritenere, che, come ci sono indubbiamente dei popoli più inclini all'elaborazioni delle credenze religiose, anche di quelle che hanno carattere mitico, così è probabile che i miti giuridici trovino in alcune nazioni un terreno più propizio alla loro formazione”. Nazioni che sarebbero quelle dove sono più forti e continue le tendenze rivoluzionarie .

Con queste premesse, nell'indicare i miti giuridici (dell’epoca), il giurista ne enumera tre, tutti connessi al pensiero politico e alle rivoluzioni moderne: stato di natura, contratto sociale, volontà generale. Questi ultimi sono quelli che trovano più adepti tra filosofi e giuristi “la cui immaginazione dal campo delle teorie e delle ipotesi scientifiche si lascia trascinare, più o meno inconsapevolmente, in quello della mitologia”. A tale proposito si può “ rilevare, e non è senza importanza, che in esse affiora la tendenza propria dei miti e già da altri (Croce) notata, di immaginare enti che non esistono e di dar vita a cose inanimate o anche a semplici astrazioni”. E di dar loro vita con delle personificazioni “ ora del popolo, ora dello Stato, ora di certe istituzioni di quest'ultimo che avrebbero il compito di costituire o esprimere o rappresentare tale volontà” (generale).

Per cui tali miti finiscono col diventare realtà giuridiche; infatti possono considerarsi (come ad esempio le personificazioni) mitiche “quando non hanno fondamento e riscontro in effettivi caratteri delle istituzioni che costituiscono un ordinamento giuridico positivo. Viceversa, possono essere e sono vere realtà giuridiche se e quando determinano la struttura, gli atteggiamenti concreti, il funzionamento delle istituzioni”.

Il giurista, nel concludere il breve scritto, dichiarava che non intendeva “attribuire alla mitologia giuridica il carattere meramente negativo di un insieme di concezioni soltanto fantastiche e perciò stesso dannose e pericolose”; perché spesso “il mito scaturisce da bisogni pratici, di cui non si ha sempre chiara coscienza, da intuizioni nebulose che pure hanno elementi di verità, da istinti oscuri, ma profondi. E allora il mito, che non è realtà, ed è anzi l'opposto della realtà, può segnare il principio di un cammino che conduce alla realtà, non solo scoprendola, ma addirittura creandola” e a tali miti “il diritto deve molto e, fra gli esempi che sopra si sono addotti, alcuni confermano che non poche delle attuali realtà giuridiche non hanno che tale origine” ma ciò non toglie “che altri miti invece, (sono) rimasti “ombre vane fuor che nell'aspetto” e nelle forviate credenze di filosofi o di giuristi, possano determinare errori gravi e non innocue utopie” .

2. Tale conclusione di Santi Romano presenta  caratteri divergenti e altri comuni alle concezioni del mito e del mito politico in particolare. Senza voler fare un'analisi delle numerose tesi al riguardo, si possono sintetizzare (e accorpare) le varie concezioni del mito in  categorie.

Fin da Platone - secondo una di queste - il mito è stato considerato una forma alle volte fuorviante, ma altre valida di conoscenza  in particolare per ciò che indica come giusto per la condotta umana ; da Vico era considerato una forma autonoma di elaborazione di pensiero e di regole di condotta, adatta a un determinato stadio (“giovanile”) della vita di un popolo . Il mito quindi è verità, ma espressa poeticamente e fantasticamente.

Secondo un'altra concezione il mito è una rappresentazione degli assetti di potere e dei valori di un gruppo sociale. In questo senso il mito può essere ricondotto a una “derivazione” secondo la terminologia di Pareto, o a un elemento (fondamentale) della “formula politica” di Gaetano Mosca.
A queste va accostata la concezione di Sorel secondo il quale il mito è un'organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente “tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra impegnata dal socialismo contro la società moderna”.

Onde il mito è essenzialmente un moltiplicatore/suscitatore di volontà, fondato su intuizioni e rappresentazioni largamente condivise nel gruppo sociale e  idonee a supportare il consenso e indirizzare l'opinione e l’azione politica di massa .

Tali diverse concezioni del mito trovano una corrispondenza nel mito giuridico.

La prima è il rapporto idea (racconto) - verità. Vi sono miti che corrispondono a verità, e la esprimono in forma metaforica e intuitiva, ed altri che sono frutto di pura fantasia. Il criterio distintivo è peraltro verificabile in corpore viri, cioè in concreto, nella storia che, come sosteneva de Maistre, è la “politica applicata”.

Ad esempio uno dei miti più famosi è quello della fondazione di Roma. Nel racconto che ne fa Plutarco si desumono due regole dal comportamento di Romolo e Remo. A seguito del disaccordo sul luogo dove edificare la città, si decise di rimettere la decisione al “divino”. Dato che prevalse Romolo (forse con la frode) lo stesso cominciò a scavare il fossato all’interno del quale edificare le mura della città, mentre Remo lo derideva ed ostacolava. Ma quando attraversò con un salto il fossato Romolo (o uno dei suoi seguaci) lo uccise. Da tale racconto (a parte la frode di Romolo, anch'essa mezzo normale della politica) è possibile ricavare due regole di grande importanza per la saldezza e durata delle istituzioni (quelle politiche soprattutto): la prima è che il vertice dell’istituzione deve essere unico e  una la direzione politica (se esercitata da un organo monocratico o collegiale, rex aut senatus, è secondario); in caso contrario la decisione può non essere presa (anche se è di vitale importanza) e viene delegata al caso, comunque a un qualcosa che esula dalla responsabilità (umana). L’altra che il confine - in senso ampio - differenzia ciò che è interno o esterno alla comunità ed è essenziale per l'ordine e l'unità della stessa. A trascurare queste regole, o a confortare anche interpretativamente il contrario o ad indebolirle s' “impara più presto la ruina che la preservazione sua”, come scriveva Machiavelli ; e ve ne sono tanti esempi nella storia che è superfluo ricordarli.

Santi Romano ha individuato poi il carattere distintivo tra miti frutto di pura fantasia e miti costitutivi-rappresentativi di realtà giuridiche.

Il criterio è “fattuale”: è mito giuridico quello che si istituzionalizza, diventa cioè realtà giuridica. Si poteva rispondere che tale criterio non è tale perché, specie nel XX secolo, ci sono stati miti che sono diventati istituzioni, pur rimanendo frutto di fantasia e di stravolgimento della realtà. Un esempio classico è stato il comunismo, che dall'alba al tramonto è durato quasi quanto il “secolo breve” (nel caso sovietico, il più longevo). Senonché una tale obiezione non coglie nel segno: per intendere appieno il concetto di diritto dei giuristi istituzionisti bisogna partire da due connotati fondamentali dell'istituzione (cioè del diritto) e/o dell'ordine sociale, ossia durata e movimento. Quest'ultimo al momento non interessa. Quanto alla prima scriveva Hauriou che  il primo dei vantaggi di un potere esercitato in nome di un'istituzione è la durata, perché il proprio “dell'istituzione è durare più a lungo degli uomini, e quindi di far durare il potere esercitato in proprio nome” .

Santi Romano in un'altra opera scrive “esistente e, per conseguenza, legittimo è solo quell'ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale ma altresì la vitalità. Su quale base logica tale concetto riposi è appena necessario mostrare. La trasformazione del fatto in uno stato giuridico si fonda sulla sua necessità, sulla sua corrispondenza ai bisogni ed alle esigenze sociali. Il segno, esteriore se si vuole, ma sicuro che questa corrispondenza effettivamente esista, che non sia un'illusione o qualche cosa di artificialmente provocato, si rinviene nella sucettibilità del nuovo regime ad acquistare la stabilità, a perpetuarsi per un tempo indefinito” e aggiunge “Finché ciò non avviene, si potranno avere supremazie che s'impongano con la forza, ordinamenti che sembrano, a reggitori improvvisati o a masse esaltate, costituiti e che invece non lo sono e fors'anche non lo saranno mai, ma non nuovi Stati e nuovi Governi. Questi - e ciò è implicito nel loro stesso concetto - non possono essere passeggere creazioni che si formino o si disfacciano a capriccio degli uomini: essi sono il risultato di innumerevoli forze e di procedimenti che hanno radici secolari nella storia” .

Per cui i miti che riescono ad istituzionalizzarsi nel senso della creazione di istituzioni o di organi istituiti dalle stesse, divengono realtà giuridica; quelli frutto di fantasia non compiono mai questo cammino .

L'altro elemento distintivo del mito suggerito da Santi Romano è connesso alla cognizione: quando il mito esprime  verità (come nel caso del mito della fondazione di Roma) e quando invece è una mera fantasia. In tal caso anche se poi i secondi hanno un certo successo (e con ciò torniamo al precedente fundamentum distinctionis) resta il fatto che sono comunque irreali e realizzano cose diverse da quelle volute. Non bisogna dimenticare che, come scrive Sorel “c'è eterogenesi tra fini realizzati e fini dati: la più piccola esperienza ci rivela questa legge, che Spencer ha trasferita nel mondo materiale per dedurne la sua teoria della moltiplicazione degli effetti”; quindi i miti che non si sono tradotti in realtà giuridica (se non in modo effimero, o comunque non giuridici nel senso sopra condiviso) hanno avuto  effetti diversi dalle intenzioni, ma spesso positivi. A cominciare dalla decisione della Convenzione della Francia rivoluzionaria di chiudere nell'arca il proprio “progetto costituzionale” cioè la Costituzione dell'anno I (24 giugno 1793), dopo averla votata perché renderla vigente avrebbe gravemente ostacolato la difesa della nazione.

E nessuno si è sognato di riaprire quell'arca, neanche in tempo di pace, perché i connotati essenziali di quella costituzione: assemblearismo, estrema  democraticità, debolezza del potere governativo, la rendevano di difficile applicazione (quindi fonte di disordine e gracilità) anche in tempo di pace. Quel che sortì fuori dal mito rivoluzionario (come espresso nella costituzione “sospesa”), fu assai diverso: una dittatura sovrana, che ebbe successo nella difesa del paese, grazie agli enormi poteri , alla mobilitazione delle masse e al terrore. Cosa che rientra in pieno nell' “eterogenesi dei fini” del mito, affermata da Sorel.

E' da notare che per miti del genere l'eterogenesi dei fini (o paradosso delle conseguenze) è la regola. Con la conseguenza che, di norma, quel che di giuridico costruiscono è ciò che è fattualmente possibile, spesso solo una (per lo più modesta) variazione di ciò che la storia, e la storia delle istituzioni già conosce . Al mito marxiano della società comunista (senza Stato e senza politica), cioè un regime contrario alla natura umana (zoon politikon) e alle regolarità del “politico” (Miglio e Freund), corrisponde la realizzazione di una dittatura sovrana, che è una species moderna di un genere di reggimento politico diffuso nelle comunità umane: dal dispotismo orientale, alla tirannia fino alle versioni molto più soft come la dittatura romana, temporanea e controllata (da altri poteri). Dell'altra (la società comunista) non s’è vista neppure l'ombra, proprio perché irreale, ossia impossibile a tradursi in concreto.

3. Nelle concezioni del mito c'è anche quella che li considera delle rappresentazioni utili, per lo più alla classe dirigente, che se ne appropria,e/ o li propone e li diffonde per guadagnare legittimità e consenso: nei casi  d’eccezione per motivare le masse (da mobilitare, come in caso di guerra).

Nella forma più estrema servono cioè a rafforzare l'inimicizia, il sentimento ostile che è uno degli elementi fondamentali della lotta (armata). Non solo nella guerra, ma anche nelle rivoluzioni, dove il nemico è interno. La cosa “strana”  - ma logica - è che proprio le rivoluzioni, più ancora delle guerre, hanno un effetto “fondativo” delle istituzioni e dei regimi politici. In ispecie quelli moderni dove a un cambiamento (cambiamento) di classe dirigente corrisponde quasi sempre una nuova costituzione.

Nel pensiero degli elitisti questo è attentamente evidenziato: il rapporto tra potere - e organizzazione dello stesso - e giustificazioni del potere è affermato da Gaetano Mosca: “la classe politica non giustifica esclusivamente il suo potere col solo possesso di fatto, ma cerca di dare ad esso una base morale ed anche legale, facendolo scaturire come conseguenza necessaria di dottrine e credenze generalmente riconosciute ed accettate nella società che essa dirige” il quale trovava anche il termine per definirlo “Questa base giuridica e morale, sulla quale in ogni società poggia il potere della classe politica, è quella che in altro lavoro abbiamo chiamato e che d'ora in poi chiameremo formola politica” (il corsivo è nostro). Il che non significa che “le varie formole politiche siano volgari ciarlatanerie inventate appositamente per scroccare l'obbedienza delle masse... La verità è dunque che essere corrispondono ad un vero bisogno della natura sociale dell'uomo; e questo bisogno, così universalmente sentito, di governare e sentirsi governare sulla sola base della forza materiale ed intellettuale, ma anche su quella di un principio morale, ha indiscutibilmente la sua pratica e reale importanza”. Per cui è “necessario anche di vedere se, senza qualcuna di queste grandi superstizioni, una società si possa reggere; se una illusione generale non sia cioè una forza sociale, che serve potentemente a cementare la unità e la organizzazione politica di un popolo e di un'intera civiltà” . E' da notare l'insistenza con cui Mosca relaziona la “credenza” all'assetto istituzionale (giuridico).

Anche per Pareto le derivazioni sono connotate di guisa che i “miti” vi si possono ricondurre, in particolare per il riferimento all'autorità; sia quando si trovano in accordo con sentimenti e convinzioni per lo più condivise nel gruppo sociale. Proprio l’impostazione realistica e la prevalenza nel comportamento umano delle azioni non logiche, lo porta a considerare le derivazioni, e quindi i miti, spesso utili alla società. che contribuiscono a mantenere unita (e salda).

4. Questo rapido - e forzatamente lacunoso - percorso sul mito “giuridico” (che è spesso un mito giuridico-politico), porta a distinguere i miti giuridici (o ad effetti giuridici) in diverse classi a secondo della verità e dell'utilità degli stessi.

Miti veri: raramente, se correttamente applicati, tornano controproducenti. Dannoso è, quasi sempre, non tenerne conto. Così quello che insegna il mito, prima ricordato, della fondazione di Roma. Il “dualismo di poteri” nella stessa comunità politica è sempre stato fonte di dissoluzione e dis-ordine; nei casi migliori di debolezza istituzionale e quindi di libertà politica (della comunità) ridotta. Preludio alla fine e, più spesso, alla divisione (itio in partes) di questa.

Così - al contrario - il mito della bontà dell’uomo, nelle varie specie in cui è stato formulato, ad esempio quella del “buon selvaggio”. Che di sicuro era selvaggio, ma altrettanto certamente era di un tipo per così dire inaccettabile e poco rassicurante di bontà, praticando spesso sacrifici umani e antropofagia. Pratiche finalizzate a placare le divinità o acquisire le virtù del...pasto, ma l'ingenuità di certe credenze primitive non è segno di superiorità morale.

Tuttavia presupporre l'uomo buono, in tutte le varie declinazioni che può assumere, è un “mito” distruttivo perché in una società dove gli uomini fossero buoni governi, giudici, poliziotti e così via, come scrive Schmitt, sarebbero inutili.

Mentre la contraria convinzione (di cui al racconto biblico del peccato originale) che l’uomo può scegliere tra male e bene, reale e verificabile in concreto, rende spiegabile e giustificabile l'istituzione del potere.

Miti non veri ma utili: ovvero il caso dell' “eterogenesi dei fini” (o come la denominava Freund, paradosso delle conseguenze). E' specie frequente e considerata spesso una risorsa sociale e non dannosa, se, come in tutte le attività pratiche, consegue risultati positivi: s'intende per la comunità e per l'istituzione che ne beneficia.

Ciò che la distingue è lo iato che separa aspirazioni e risultati: quelle destinate a non realizzarsi, mentre questi, spesso opposti, divengono azione politica e (anche) realtà istituzionale.

Miti né veri né utili (alla comunità e all'istituzione): ve ne sono tanti e sarebbe inutile elencarli. Le caratteristiche che più frequentemente presentano è d'essere utili a ristrette cerchie della popolazione - in genere la classe dirigente (e sue frazioni): compensano la scarsa utilità comunitaria con un’alta utilità “corporativa”. Quanto a tradursi in risultati, e divenire anche in modo paradossale realtà giuridica, occorre distinguere. Possono diventare realtà giuridiche, ma in modo controproducente e così dissolutorio della sintesi istituzionale e della comunità. Essendo il mito destinato a favorire interessi “di nicchia” per lo più si realizzano in norme ed istituti limitati e defilati, e data tale caratteristica sono relativamente  dannosi (almeno nel breve-medio termine). Sono spesso miti in “formato ridotto”, la maggior parte delle volte più propaganda che racconto o credenza mitica. Ma altri hanno avuto effetti epocali: ad esempio il mito del ritorno di Quetzalcoatl atteso dalle popolazioni messicane più o meno nel tempo dello sbarco di Cortés, che finì con l'essere scambiato con il Dio-eroe Tolteco; o il mito della “libertà” polacca (cioè essenzialmente quella della grande aristocrazia) che fu la causa prima dell'anarchia e della dissoluzione della Polonia del '700.

5. Santi Romano elenca, come scritto, tre miti giuridici moderni. Tutti caratterizzati dall'aver una certa suscettibilità a tradursi in realtà giuridica.

E, del pari, una intrinseca politicità, dato che assumono il connotato di discriminanti politiche, di bandiere sventolate contro altri gruppi umani. La loro capacità d'istituzionalizzarsi aumenta di conserva con il loro carattere di scriminante politica. Lo stato di natura è rivolto contro chi ritiene che ogni diritto sia costituito (e conculcabile) dallo Stato; ne deriva anche la liceità dei diritto di resistenza al potere che toglie ciò che l'uomo ha per “natura”. Il contratto sociale, come tutti i contratti, suggerisce l'idea di un accordo tra uguali, e come tutti i contratti è soggetto a risoluzione e a valutazione  dei contraenti. E' oggettivamente opposto alla concezione della legittimità storica, del potere (e della diseguaglianza) “naturali”.

La volontà generale è polemicamente indirizzata contro il potere minoritario, cioè i regimi monarchici od oligarchici. Con il costituire la scriminante con altri gruppi umani, cioè col suscitare (una potenziale) inimicizia, determina anche solidarietà sociale ed identità comunitaria, che si traduce in istituzioni (più o meno) coerenti con il mito.

I tre miti giuridici elencati da Santi Romano sono tra i principali della modernità (anche se ne manca uno, assai considerato all'epoca in cui scriveva il giurista siciliano, cioè il marxismo-leninismo e, in generale, il socialismo utopistico); adesso gli stessi appaiono in deciso ribasso, offuscati da altri.

I quali hanno il carattere comune di essere non-politici, di mancare o contraddire qualche (importante) regolarità, presupposto, aspetto o conseguenza della politica  e del politico.

Il primo dei quali è il mito tecnocratico, cioè quello espresso nel modo più conseguenziale e deciso da Saint-Simon, ovvero della società in cui l'amministrazione delle cose sostituirà il governo degli uomini. In realtà nessuno l'ha visto realizzarsi, se non nel coro adulatorio di qualche governo sedicente tale  (e di corta durata). Ciò perché la natura (e l'inconveniente) del potere è tale che  oscilla tra i due abissi dell'oppressione e dell'anarchia, come sosteneva de Maistre. Un governo forte è tentato di opprimere: ma se debole è impotente a tutelare. Per cui il pensatore controrivoluzionario sosteneva che la società umana è in mezzo a questi abissi  (cioè non basta che un governo sia tecnocratico perché non abbia necessità di comandare). Nella realtà certi governi (tecnici) finiscono per risolvere  a modo loro tale alternativa: sono insieme deboli nel proteggere, ma forti nell’opprimere (finiscono col realizzare l’inverso della situazione ottimale).

Un altro è il relativismo giuridico-politico. Il quale confonde verità e certezza, scienza e diritto, conoscenza e volontà. Per cui si applica alla realtà sociale una (rispettabilissima) dottrina gnoseologica che afferma la relatività della conoscenza: che è giocoforza diventi relatività di norme, comportamenti, valori e istituzioni in materia pratica (morale e giuridica). Senonché un’istituzione politica è tale se ha, come scriveva de Bonald, un “punto” in cui è assoluta; ciò che le è essenziale, è l’autorità e non la verità, perché funzione dell’autorità è dare certezze, non verità, come sosteneva Vico “certum ab auctoritate, verum a ratione” ; anche le bizzarrie più evidenti, in ragione dell’esigenza di certezza, diventano comandi intangibili e coercibili se enunciate nel giudicato; e si potrebbe continuare a lungo.

Ma è evidente che il relativismo è inidoneo a spiegare Stati e diritto; è in contrasto con l’evidenza. E si salva solo perché autocontraddittorio. Ad esempio se si afferma “La democrazia è relativistica, non assolutistica. Essa, come istituzione d’insieme e come potere che da essa promana, non ha fedi o valori assoluti da difendere, a eccezione di quelli sui quali essa stessa si basa: nei confronti dei principi democratici, la pratica democratica non può essere relativistica”  si afferma della democrazia che, almeno in certi casi, può non essere relativistica. Con ciò l’assoluto, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. D’altra parte anche un regime democratico (in quel senso) ha dei nemici: quelli che non pensano che la democrazia debba essere relativista: ad esempio gran parte dei fondamentalisti islamici, che condividono assai poco la democrazia e ancor meno il relativismo. Se poi si aggiunge che “la democrazia deve cioè credere in se stessa e non lasciar correre sulle questioni di principio, quelle che riguardano il rispetto dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani e dei diritti che ne conseguono e il rispetto dell’uguale partecipazione alla vita politica e delle procedure relative”  (il corsivo è nostro), si comprende perché, per insegnare tale dottrina ai tedeschi e ai giapponesi, le democrazie anglosassoni praticarono bombardamenti terroristici, giungendo fino ad impiegare la bomba atomica.

Quindi un regime relativista impiega la forza come gli altri, ha nemici come gli altri e fa guerra come gli altri.

Il relativismo conseguente e non autocontraddittorio, cui si può applicare quanto scriveva oltre un secolo fa Maurice Hauriou dello spirito critico, è così un potente fattore di dissoluzione delle istituzioni  e quindi per spiegarle e costruirle è un “mito” e più precisamente di quelli che non possono realizzarsi (se non al minimo) e a realizzarli coerentemente e totalmente distruggono ciò che dovrebbero consolidare (e aiutare a comprendere).

Un altro mito, anch’esso frutto di diffusissime aspirazioni concrete unite a concezioni dotte è quello della “pace attraverso il diritto”, cioè attraverso i Tribunali (internazionali) sostenuto da Kelsen nella prima metà dello scorso secolo. Il cui modello lo ha fornito l’art. 227 del Trattato di Versailles, che prevedeva per Guglielmo II “uno speciale tribunale sarà costituito per provare l’accusa, assicurando a lui le guarentigie essenziali al diritto di difesa. Esso sarà composto da cinque giudici, uno designato da ciascuna delle seguenti Potenze: gli Stati Uniti d’America, la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia e il Giappone”  (cioè i vincitori).

Santità e moralità offese sono un requisito essenziale di ogni processo del genere; peraltro servono a far trascurare il fatto che l’accusa è mossa dai vincitori, che gli accusatori nominano i giudici per processare il vinto e che non esisteva (nel caso) neanche un crimine giuridicamente qualificato come tale (nullum crimen sine lege). Tutte circostanze che nulla hanno a che fare con le garanzie della giustizia come normalmente intesa e praticata nelle democrazie liberali e molto, invece, con le conseguenze politiche della guerra. I “cloni” successivi hanno cercato di ridurre o eliminare alcune delle illegittimità ricordate (in particolare le Corti non sono composte solo da giudici designati dai  vincitori, di solito pre-costituite e non designate ad hoc) senza però poter ovviare al difetto essenziale. Ovvero quello che appare dal citato saggio di Kelsen, che si prende in esame tra i tanti di una letteratura copiosa, sia per l’autorevolezza del giurista, sia per il momento in cui lo scrisse: e cioè che per eliminare la guerra, per far funzionare concretamente una Corte internazionale come un Tribunale di diritto “interno” occorre o l’accordo delle parti (ma allora a che serve la Corte?) o una forza capace di costringere ad eseguire le decisioni. Ma se manca l’uno o l’altro ogni tentativo di ridurre o eliminare i conflitti, facendo “tintinnare le manette” è una favola, edificante quanto inutile. Il giovane Hegel considerava illusoria e incongrua ogni “unità” non realizzata attraverso un potere comune

E che pone un problema, a voler seguire la tesi di Kant per cui connotato del diritto è la coazione. Se è vero che nella specie, in astratto la coazione è possibile (e in questo senso, è diritto), occorre tuttavia considerare se possa costituire diritto, o almeno diritto efficace, una normativa la cui possibilità concreta di coazione sia rara ed episodica.

O se il tutto non  si traduca in un autodafé mediatico chiassoso ma (diversamente dal modello originale) di sostanziale innocuità. Il problema del rapporto tra validità ed efficacia delle norme se lo poneva anche Kelsen “perché non si può negare che tanto un ordinamento giuridico come totalità quanto una singola norma giuridica perdono la loro validità quando cessano di essere efficaci” .

6. La differenza tra i miti ricordati dal giurista siciliano e quelli sopra descritti è uno dei segni del cambiamento del common sense se non della generalità dei cittadini, almeno di parte della classe dirigente.

Invero i primi tre miti denotano il sentire comune di una percezione della comunità in crescita, l’alba di una nuova epoca, e la costruzione delle istituzioni (in maggior misura) influenzate da quei miti. In effetti tutti e tre sono miti costruttivi: lo stato di natura, almeno nella formulazione che ne da Hobbes (ma non solo), significa bellum omnium contra omnes, e l’opportunità di uscirne per costruire un ordine che garantisca pace e sicurezza. Anche l’altra faccia, quella evidenziata da Santi Romano, dell’ “anteriorità” dei diritti fondamentali è costruttiva perché sollecita la costituzione di un ordine che tenga conto di quei diritti innati.

Anche il contratto sociale ha un esito costruttivo: è all’origine del costituzionalismo moderno, della costituzione come atto consapevole e deciso dalla rappresentanza nazionale: non è solo il grimaldello per scardinare l’Ancien régime, è la base per ri-fondare l’istituzione-Stato.

Lo stesso ruolo riveste la volontà generale, che finisce, come scrive Santi Romano, con avere un ruolo decisivo nelle personificazioni dello stesso.

E, si può aggiungere, anche nella costruzione del principio democratico di legittimità e ancor più dell’importanza della discussione, comunque rapportato alla volontà e alla decisione a maggioranza (considerata almeno la più vicina alla volontà generale) .

Di converso i tre miti sopra enumerati, in gran voga dalla metà del secolo passato hanno tutti un effetto dissolutivo: non nei confronti di un regime “ancien”, ma delle stesse istituzioni politiche in genere.

Quanto al mito tecnocratico, si fonda sull’illusione che gli uomini possono non essere governati, ossia che non sia necessario il rapporto di comando/obbedienza: peraltro pone l’accento sulla capacità tecnica dei governanti (che, a dirla tutta, non guasta) ma è comunque subordinata al consenso politico, al rapporto governati-governanti .

Per cui a ragione Croce, in un passo assai citato rilevava che “Quale sorta di politica farebbe codesta accolta di onesti uomini tecnici, per fortuna non ci è dato sperimentare, perché non mai la storia ha attuato quell’idea e nessuna voglia mostra di attuarla” .

Il mito relativista – chiaramente ed esplicitamente autocontraddittorio, presenta due mende fondamentali (d’altra parte, anch’esse, esternate dai sostenitori): che ogni regime politico ha dei valori (delle forme, dei precetti) non negoziabili, per cui nessuna forma politica può essere (conseguentemente) relativista.

E che, come sopra cennato, perché esista una comunità (una sintesi) politica occorre l’autorità: carattere della quale è dare certezza – cioè comandi eseguiti – e non verità .

Per cui una democrazia conseguentemente relativista ha la stessa probabilità di realizzarsi concretamente del governo tecnico e vale per la stessa il giudizio sopra citato di Croce, di non essere mai stata attuata dalla storia e che questa non manifesta intenzione di attuarla.

Quanto alla pace attraverso i Tribunali (meglio non scomodare il diritto più del necessario), anche qui è invertito il rapporto tra volontà e sentenza, tra decisione politica e decisione giudiziaria nonché tra jus dicere e coazione.

Fu de Maistre ad esprimere il principio che “dove non c’è sentenza vi è scontro”  ma senza pretendere che bastasse un qualsiasi organo giudiziario, ancorché composto da galantuomini benintenzionati, magari come il Tribunale Russel in voga ai tempi della guerra fredda, per far cessare l’ostilità e soprattutto la sua conseguenza – la guerra – che, come sosteneva Proudhon è connotato esclusivo e distintivo della specie umana. Per far la guerra infatti basta la volontà, cioè l’intenzione ostile ; così come per eseguire la sentenza occorre forza: accanto al volere occorre il potere di realizzare il volere.
Ma se la guerra è un fatto di volontà il mezzo reale per evitarla è di trovare un accordo e non di processare il nemico vinto, né tantomeno quello di minacciare il patibolo a qualcuno che, con la decisione di aggredire o resistere all’aggressione, mette a rischio la propria vita e quella degli altri, amici e nemici. Che poi alla fine del conflitto che costituisce (e sostituisce) una decisione su un nuovo ordine, lo si “doppi” con un processo è una cerimonia solenne quanto inutile essendo la decisione già avvenuta .

La possibilità che questi miti si realizzino è esclusa, che possa da ciò realizzarsi qualcosa di assai diverso con l’ausilio del “paradosso delle conseguenze” (Freund) non è invece da escludere. Ad esempio il mito dei Tribunali internazionali può contribuire a costituire nuove e più estese unità politiche a scapito della sovranità delle comunità che entrano a farne parte. Hauriou sosteneva che il diritto (e la giurisdizione) comune ha carattere “internazionale” perché volto a dirimere i conflitti tra i diversi gruppi umani in via di raggiungere l’unità politica (Dike); e ne contrapponeva i caratteri al diritto disciplinare volto a decidere i conflitti tra appartenenti allo stesso gruppo sociale (Thémis).
Così la giustizia e le Corti internazionali potranno persino costituire l’avanguardia di uno Stato federale e forse mondiale, che provveda sia a decidere i conflitti che ad applicare il diritto e le decisioni prese.

7. Il carattere dissolutorio dei miti giuridici contemporanei può comunque costituire la rappresentazione del processo di decadenza dello Stato moderno, così come i miti considerati da Santi Romano lo erano della “seconda fase” dello Stato, cioè quella liberal-democratica (o post-rivoluzionaria), quando ancora lo Stato era in espansione. La tecnocrazia ha poco a che fare con la democrazia; il relativismo con i diritti dell’uomo e del cittadino e soprattutto con la volontà della nazione “ch’è tutto ciò che deve essere per il solo fatto di esistere” (Sieyès): l’indipendenza, la sovranità della nazione e il carattere “chiuso” dello Stato con i tribunali internazionali. In questo senso tali miti sono in un certo senso “rappresentativi” di un processo di crisi dello Stato, che come altre forme politiche è peculiare di un certo periodo storico. Come lo Stato moderno ha sostituito quello feudale, come la polis ha fuso i gruppi tribali (o gentilizi) , così anche lo Stato e l’ordine westfaliano giungerà al termine; e  tale convinzione è diffusa.

Dove però i miti dimostrano il loro carattere irrealistico è nell’applicare alle “regolarità della politica e del politico” la critica (e la sorte) dell’istituzione-Stato. Ma mentre questa forma politica appartiene alla storia (e ne è modellata), le regolarità della politica pertengono alla natura umana, e c’è altrettanta possibilità di cambiare quelle che di fermare il sole.

L’idea di sostituire il governo con l’amministrazione e così farne a meno è contraria ad uno dei presupposti del politico (Freund): quello del comando/obbedienza. Una tecnocrazia non sostituisce il governo: governo ed amministrazione si sommano. Anzi se vi sono state comunità umane (per millenni) prive di un’amministrazione burocratica, tanto meno in senso moderno, cioè selezionata (e dotata) di sapere specializzato (ossia tecnico), non se ne ricorda alcuna priva di “governo degli uomini”.

Lo stesso capita per il relativismo, anche se la sua autocontraddittorietà lo rende possibile, in quanto non sia relativista, ossia riconosca un assoluto nell’istituzione e nell’ordine comunitario. Infatti anche un regime relativista, come sopra scritto, ha dei nemici (e così il presupposto dell’amico-nemico), e una “tavola di valori” da imporre anche ai componenti della comunità che preferiscono valori diversi (cioè, non è relativista).

Il politeismo dei valori poi, anche se spesso non escludente, è sempre gerarchico: i valori non sono uguali ma ordinati secondo il più e il meno (e così tollerati) .

Quanto ai Tribunali internazionali, se è stato affermato (v. sopra) da Hauriou (tra gli altri) che un embrione di diritto comune nasce dalla giustizia “internazionale” (Dike); cioè tra gruppi sociali (classi, gentes, tribù), destinati (talvolta) a fondersi in una sintesi politica, d’altro canto è stato, sempre dal giurista francese, notato che accanto a questa c’è sempre un’altra giustizia (Thémis) interna al gruppo sociale, caratterizzata della supremazia del gruppo (del capo) sui sudditi e quindi dall’essere essenzialmente disciplinare e di dar luogo a un diritto conseguente (droit disciplinaire).

Talvolta nella storia l’esistenza di istituzioni di giustizia “internazionale” è stata l’avanguardia della costituzione dell’unità politica; altre volte no, come nel caso del Reichskammergericht, coetaneo alla decadenza del Sacro Romano impero e finito con lo stesso .

La conseguenza è che un rapporto tra istituzioni di giustizia “internazionale” e costituzione di sintesi politiche nuove vi può essere, ma non ha carattere necessario né     cogente, ma accidentale e tali miti lo possono favorire ma non costituire né delinearne compiutamente la forma.

Per questo occorrono i monopoli della decisione politica e della violenza legittima, cioè un potere unificante, come scriveva  il giovane Hegel poco prima della caduta del Sacro Romano Impero.

Tutti questi miti hanno pertanto carattere decostruttivo né quanto potranno (indirettamente e spesso paradossalmente) costruire è prevedibile. E’ prevedibile di converso che non potranno né incidere sulle regolarità della politica né costruire istituzioni conformi alle aspirazioni espresse e suscitate.

D’altra parte se, come scrive S. Agostino Dio spesso si serve del male e dei malvagi per fare il bene , non è vietato sperare che, con il soccorso divino, l’errore possa generare se non la verità, almeno qualcosa di utile.
                                Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE

(1) Notava anche che “Nella filosofia della storia si usa questa parola per significare quelle formule che muovono ogni tanto le coscienze delle masse, le quali non hanno coscienza  individuale: Liberté egalité fraternité, La legge è uguale per tutti, Re per grazia di Dio, Dittatura del proletariato, ecc.. Senonché, non solo in questo senso traslato e improprio, ma anche in senso corrispondente a quello in cui la parola è adoperata in dottrina, il concetto di mito può esattamente riferirsi, se non a tutte le formule accennate, ad altre che hanno più o meno immediata attinenza al diritto” op. cit. p. 126.