venerdì 11 settembre 2015

Elogio della sovranità. - Recensione di T: Klitsche de la Grange a Biagio De Giovanni

Biagio De Giovanni. Elogio della sovranità politica. Editoriale Scientifica Napoli 2015 pp. 332, € 20,00.

De Giovanni analizza la sovranità, uno dei concetti-chiave del pensiero politico moderno, e le concezioni contemporanee volte a negarla (o esorcizzarla). Una delle quali (la principale, ma non l’unica) è il normativismo e il suo successore “legittimo” cioè l’ipercostituzionalismo, il quale, come scrive Bandieri è un positivismo non di norme, ma di valori (o, come scrivono i suoi corifei, di principi).

L’opera prende le mosse dal pensiero di Hegel e, in particolare dal paragrafo 278 dei Lineamenti di filosofia del diritto. Come scrive De Giovanni per rendere chiaro il significato del termine, come inteso dall’autore, sin dall’inizio del libro è necessario ricordare il testo di Hegel, poiché in esso c’è “l’essenziale, o almeno c’è il binario lungo il quale la mia indagine si è svolta. Eccolo, dunque, accompagnato da pochi commenti, anche perché lo reincontreremo altre volte in forma più completa, e intorno ad esso avremo modo di argomentare”. Nel paragrafo 278 Hegel sintetizza in un paio di pagine i principali connotati della sovranità: i due “lati” (interno ed esterno), il suo carattere distintivo dello Stato moderno; l’idea “direttrice” della sovranità (riportare le parti della società ad un unico potere e principio direttivo); le modalità fenomeniche di manifestazione della stessa; e la distinzione tra sovranità e dispotismo.

Quest’ultima è ricordata in modo particolare dall’autore che nota come la confusione stigmatizzata da Hegel perduri oggigiorno. Come scrive criticando Ferrajoli “Il saggio di Ferrajoli su La sovranità nel mondo moderno prende avvio da lui (Kelsen), dalla celebre frase che conclude il suo studio sul problema della sovranità e che l’autore pone quasi in epigrafe: “Il concetto di sovranità deve essere radicalmente rimosso. E’ questa la rivoluzione della coscienza culturale di cui abbiamo per prima cosa bisogno”. Questa affermazione è accompagnata da due passaggi ulteriori, il primo che teorizza l’assoluta alternatività tra sovranità e diritto, termini «logicamente incompatibili e storicamente in lotta tra loro», affermazioni, peraltro, largamente discutibili”. Per cui “La sovranità ha colpa di tutto, o meglio è il concetto che meglio di ogni altro rappresenta l’origine di quella colpa (l’egemonia occidentale) verso l’umanità intera”. Ma la tesi di Ferrajoli criticata da De Giovanni è contraddittoria: infatti se la prospettiva auspicata da Ferrajoli è il costituzionalismo garantista, scrive l’autore, il quale “libero da ogni intrusione sovrana, procede a costituire un mondo nuovo … il lettore è colpito da un vero corto-circuito analitico che percorre il libro. Raramente capita di leggere, come avviene nell’ultima parte del volume cui sto facendo riferimento, una analisi così spietata e preoccupata della crisi che questo costituzionalismo attraversa nel mondo presente. Non è necessario illustrarla in esteso, basta mettere in luce il nucleo centrale, che sta nella rappresentazione di un mondo preda di mille poteri, anomico, deprivato di ogni forma, dominato da presenze anonime di stampo finanziario, mercantile, da potenze sovranazionali ademocratiche, da una Europa tecnocratica e impolitica, da un indebolimento drammatico della democrazia rappresentativa, dalla rottura del “duplice nesso tra democrazia e popolo e tra potere e diritto”; e dal “declino della sfera pubblica e dello Stato nazionale, alla cui sovranità si sostituisce una sorta di invisibile e tacita sovranità dei mercati”.

Che è il limite di ogni costruzione concettuale (in effetti utopica) che voglia prescindere dalla sovranità: la sovranità – come la guerra – è prima che un concetto giuridico (e filosofico) un fatto: voler costruire Stati, costituzioni e istituzioni concrete senza tener conto delle regolarità del politico (Miglio), ossia, tra l’altro del presupposto del comando/obbedienza (cioè del potere), e dell’amico/nemico, ovvero della possibilità del conflitto (Freund), significa costruire sulla sabbia, senza tener conto della “realtà effettuale”.

La sovranità e il conflitto, cacciati dalla porta, così rientrano dalla finestra: la prima negli organi deputati al comando – anche nella forma delle sentenze - la seconda nelle guerre, a bassa intensità o che non si svolgono usando la forza e i mezzi militari, ma con la finanza, i blocchi economici, gli attacchi informatici e così via: e i cui esiti possono essere non meno dannosi per lo sconfitto. La soluzione di sostituire come risolutori dei conflitti organi giudiziari (Corti costituzionali e Corti internazionali) ai tradizionali poteri politici è illusoria: se il politico è, come sostiene Freund, un’essenza, questo e la sovranità si ripropongono negli organi deputati a dirimere le lotte interne ed esterne all’unità politica.

Gli è che il giuridico non può prescindere dal reale, e dalle di esso regolarità (se non si vuole chiamarle leggi) mentre buona parte del pensiero giuridico contemporaneo pensa – anche se spesso non è neanche consapevole – di poterne fare a meno.

Mentre (e proprio sulla sovranità) la consapevolezza del pensiero giuridico moderno era proprio l’inverso, ovvero che non si può eliminare, né il dato reale né i rapporti di forza, ma solo (tentare di) regolarli (se possibile). Tenuto conto che, nelle situazioni d’emergenza “la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita” (Jhering); il quale a tale proposito così proseguiva: “Abbiamo così individuato il punto in cui il diritto sfocia nella politica e nella storia: qui il giudizio del politico, dell’uomo di stato e dello storico deve sostituirsi a quello del giurista, che giudica soltanto alla stregua del diritto positivo … Se non ci si fanno scrupoli nell’usare il termine “diritto” in questo senso, potremmo qui parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende praticamente possibile l’esistenza del diritto e, sporadicamente, il riaffiorare della forza nella sua missione e funzione storica originaria, cioè come fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto”.

Anche von Seydel, tipico rappresentante del pensiero gius-positivista “classico”, sosteneva l’ineliminabilità della forza e la sua antecedenza rispetto (allo Stato e) al diritto. Scriveva “la base del diritto è il dominio, la base del dominio è la forza. Se noi qui sopra abbiamo chiamato lo Stato un fatto, questa designazione non è meno conveniente per il dominio. Anche questo è un fatto, che può essere considerato indipendentemente dalla sua base originaria”; e dopo aver criticato le teorie del contratto sociale e del mandato (dei sudditi) al sovrano, proseguiva: “Il dominio è semplicemente il fatto della forza sopra lo Stato, un fatto, dal quale ha origine primamente il diritto… Il diritto non è anteriore allo Stato, ma è primamente nello Stato. Il diritto poi non è altro che l’insieme delle norme, con le quali il volere sovrano ordina la convivenza statuale degli uomini. La fonte del diritto è dunque il volere sovrano, e si spiega per ciò che questo stesso valore non può essere diritto” e concludeva sul punto “Ma pertanto è una verità incontestabile questa: non c’è diritto senza sovrano, sopra il sovrano o accanto al sovrano; c’è solo un diritto per opera del sovrano”.

Secondo De Giovanni la concezione di Hegel, con la sua distinzione tra dispotismo e sovranità “classica” si fonda sulla mediazione, in primo luogo tra politica e diritto. Che il connotato peculiare del sovrano (e del concetto di sovranità) si collochi proprio sul confine tra politica e diritto, consegue non solo al rapporto, sopra cennato, tra forza e regola, ma anche dal fatto che il potere sovrano è concepito come giuridicamente illimitato (Kant) mentre ha limiti (ontologici e) fattuali, come scriveva Spinoza (tantum juris, quantum potentiae).

L’autore richiama insistentemente la concezione di Hegel che contrappone a quella di Carl Schmitt, incentrata sullo stato d’eccezione; di quello di Hegel sottolinea il carattere formativo ed “inclusivo”. Scrive “La visione di Hegel, dunque, fa già da antidoto a quella di Schmitt, non la sovranità padrona dell’eccezione, ma la sovranità che fonda lo Stato, ne produce l’identità e contribuisce così a fondare l’esistenza di tutto ciò che vi sta dentro e intorno” e prosegue “Emerge, così, l’organizzazione della libertà dei moderni, l’ansiosa domanda di forma”; la sovranità “è il principio politico che organizza e pensa il passaggio del potere nella storia della modernità, e così la storia penetra in quella forma, la modella, le dà anche i suoi fini. Perciò, per Hegel, sovranità e costituzione si legano indissolubilmente nel mondo moderno. Ambedue partecipano del medesimo destino. Ambedue danno il ritmo alla vita obbiettiva, sono ratio e voluntas, ne accelerano il cammino”. Il che vuol dire che l’essenza del diritto è l’istituzione (cioè l’organizzazione della comunità) più che la norma. Altra ragione di distinzione dal pensiero di Kelsen (ed epigoni).

La conseguenza di un pensiero attento alla “realtà effettuale” è che, se viene meno o è indebolito il potere dell’istituzione, comunque la politica (il potere) non è affatto evitata, ma semplicemente dislocata: sovrani diventano le Corti di giustizia, i partiti, le lobbies, le istituzioni internazionali. O, più semplicemente, gli Stati esteri ancora solidi e quindi capaci di “esercitare con successo” (Weber) il loro potere anche al di la dei propri confini.

Ma ciò è tutt’altro che rassicurante per la protezione dei diritti, anche di quelli umani, garantiti da trattati internazionali: in ordinamenti democratici soprattutto, il potere politico almeno è responsabile nei confronti del corpo elettorale, dal quale può essere confermato o rimosso: ma il popolo non dispone di analoghi mezzi (elezioni, referendum) nei confronti dei poteri “supplenti”, onde l’irresponsabilità di questi è garantita.

D’altro canto l’eliminazione della sovranità diventa anche (a parole) quella della politica: come scrive De Giovanni “Giacchè la sovranità moderna si è costruita, nelle sue forme consapevoli, come punto di incontro fra decisione politica e ordinamenti giuridici, l’annientamento critico svolto dal punto di vista del diritto di uno dei termini di quel rapporto, coincide, lo si dica o no, lo si voglia o no, con l’annientamento critico della politica per il suo irrimediabile intreccio con la forza, con la decisione che, nel suo mettere in moto il novum, può apparire infondata, rischiosa. Si immagina una politica purificata da se stessa, normativizzata” onde “Togliamo la politica e saranno le varie Corti di giustizia a decidere, della legittimità della storia, immaginando di collocarsi super partes, in uno spazio neutrale dove tutti devono tacere in attesa del verdetto”; il tutto ha prodotto un “drammatico impoverimento del dibattito politico … dovuto anche a questi tentativi di amputare la storia e i concetti che contribuiscono a formarla. Si pretende di abolire la durezza della storia … abolendo l’ambiguità del principio sovrano; si immagina il trionfo del diritto abolendo il senso della decisione politica”.

D’altra parte le concezioni criticate da De Giovanni hanno il connotato comune di voler espungere il dato reale dal diritto, inteso peraltro come norma (per lo più – ma vedi nel punto il saggio di L. M. Bandieri su “Behemoth” n. 54 – www.behemoth.it). Il potere costituente non da quelle è considerato, ma comunque c’è; la guerra (il conflitto) del pari, come scrive De Giovanni: “La lotta naturalmente permane, ma si è voluto abolire il concetto che la creerebbe, con un sintomatico scambio fra realtà effettuale e immaginazione di essa”. Cioè, alla fin fine le concezioni criticate dall’autore hanno il limite di somigliare ad una coperta troppo corta, che copre – a malapena –la metà del corpo. Vale, tra tutti, in questo caso, la considerazione di Schmitt che ritiene il normativismo kelseniano carente nel fatto (tra l’altro) di non prendere in esame il problema dell’applicazione del diritto (in particolare l’esecuzione delle decisioni) che è immanente ad ogni concezione giuridica, ma è particolarmente importante per l’ “idea” e la funzione dello Stato moderno.

In definitiva un libro interessante ed attuale, che espone sia il senso (profondo) dell’idea di sovranità, sia l’inconsistenza – anche se accompagnata dalle buone intenzioni – delle critiche di chi vorrebbe farne a meno.

A proposito delle quali, e tornando ad Hegel, è quanto mai adatta a queste (e ai loro corifei) quanto il filosofo scriveva nella Fenomenologia dello Spirito, relativamente a certi suoi contemporanei “ simili essenze e fini ideali si accasciano come parole vuote che rendono elevato il cuore e vuota la ragione; simili elevate essenze edificano, ma non costruiscono, sono declamazioni che con qualche determinatezza esprimono soltanto questo contenuto: che l’individuo il quale dà ad intendere d’agire per tali nobili fini e ha sulla bocca tali frasi eccellenti, vale di fronte a se stesso come un’eccellente essenza: - ma è invece una gonfiatura che fa grossa la testa propria e quella degli altri, la fa grossa di vento –.
Teodoro Klitsche de la Grange

 Questo articolo esce contemporaneamente sul sito Behemoth.

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