lunedì 12 ottobre 2015

Gilad Atzmon: «Il conflitto israelo-palestinese è adesso una guerra di religione». - Interpretazione filosofica della Intifada dei coltelli.

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Appena terminato il mio precedente post,  su “cristianesimo e giudaismo”,  mi giunge un nuovo articolo di Gilad Atzmon, che si collega a quello suo precedente, ma anche alla problematica che ho iniziato a esporre estraendo e commentando citazioni significative dal libro di Francesco Spadafora. Sono tutti argomenti assai importanti di teologia politica del momento: uso il termine teologia politica per racchiudere insieme il tema della politica e quello della teologia, riuniti insieme da Gilad Atzmon in questo suo articolo dove dice che per intendere il conflitto israelo-palestinese lo si deve interpretare come una vera e propria guerra di religione. Qui mi sovviene il mio maestro, di cui mi professo modesto discepolo. Intendo il concetto schmittiano del politico, laddove si dice che il conflitto politico può ben spostarsi in qualsiasi altro àmbito, quando viene scacciato o soffocato da quello suo proprio e originario che è il campo di battaglia con eserciti regolari schierati l’uno di fronte all’altro. Ma ormai non solo gli strumenti di guerra, le armi, evolvono senza sosta secondo la relazione hobbesiana della pericolosità – così chiamata da Schmitt in onore a Thomas Hobbes –, ma anche la forma stessa della guerra e il suo modo di rivelarsi ovvero di dissimularsi, giacché questo mondo, mentendo a se stesso, dice di voler ripudiare la guerra, ma poi di fatto la riproduce continuamente in forme sempre rinnovate e cambiandone il nome in modo che si creda che la guerra non ci sia più. Per quanto riguardo il passaggio del conflitto dal campo politico propriamente detto a quello religioso, si può forse osservare che se nella specie il conflitto israelo-palestinese deve incominciare a intendersi come vera e propria guerra di religione, questo non significa che una guerra di religione non sia essa stessa intrinsecamente politica se per “politico” non si intende la pratica negoziale, la burla degli eterni negoziati di pace mentre Israele continua a rubare terra e a uccidere il suo partner negoziale, o i dibattiti parlamentari, i patti del Nazareno, l’elettoralismo, l’arte del compromesso e del consociativismo, ma si intende invece la contrapposizione esistenziale per la quale si uccide e si nega non solo l’esistenza fisica del nemico ma ogni sua forma espressiva. In questo senso, il conflitto israelo-palestinese nella sua forma religiosa è un conflitto eminentemente politico perché fin dall’apparire, anno 1882, del sionismo in Palestina era dato come presupposto lo sterminio fisico degli indigeni palestinesi. È una guerra che ha superato di gran lunga i suoi Cento Anni e che non sembra voler terminare se non con il completo annientamento dell’uno o dell’altro dei contendenti. Noi stiamo a guardare, ma non possiamo dirci neutri perché siamo necessariamente partigiani per l’uno o per l’altro. Ma è ora di lasciare la parola ad Atzmon. Per la traduzione che qui offriamo ai nostri Cinque Lettori valgono le cautele in precedenza espresse. L’irrompere qui in modo prepotente della dottrina schmittiana del politico ci induce a rinviare i nostri Cinque Lettori ad un nostro blog, i Carl Schmitt Studien, dove meglio curiamo la filologia del testo schmittiano, che qui - citato forse inconsapevolmente da Gilad Atzmon – torna di straordinaria attualità e ci è di sprone all’aggiornamento di quest’altro blog e di altri ancora, tutti interconnessi secondo un mio piano originario, che privilegia la rete, questa nuova forma di scrittura, alle tradizionali monografie accademiche destinati a non aver Lettori, o meglio effettivi fruitori.

GILAD ATZMON
Il conflitto israelo-palestinese è adesso una guerra di religione

Carl Schmitt (1888-1985)
Due giorni fa ho scritto che il conflitto israelo-palestinese è diventato una guerra di religione e che la nostra comprensione di questo battaglia deve evolversi per adattarsi alla nuova realtà. La mia osservazione è sembrata ragionevole a molti. Non appena ho pubblicato il mio testo, Press TV ha chiamato e mi ha chiesto di commentare il tema in onda. Nolti palestinesi mi hanno contattato per ringraziarmi per aver detto ciò che pure essi credono sia una descrizione accurata della loro situazione sul terreno.

Tuttavia, alcuni dei miei amici e supporter, fra cui alcuni della diaspora palestinese, sono rimasti sinceramente offesi e turbati dalla mia lettura della situazione. La loro obiezione è che la rivendicazione della loro terra da parte dei palestinesi non ha bisogno di un’autorità religiosa per essere legittimata. Un altro argomento è che la visione del conflitto come una battaglia religiosa è «non buona per il per il movimento di solidarietà».

Naturalmente, io pure credo che il diritto dei palestinesi alla loro terra sia eticamente ed universalmente fondato e non ha bisogno di ulteriori giustificazioni di natura religiosa o laica.La trasformazione del conflitto in una guerra di religione non è stata causata dai palestinesi in cerca di un’autorità per approvare la loro causa. Se non mi curo molto del ‘Solidarity Movement” e dei suoi “interessi”, mi sta invece profondamente a cuore l’oggetto della solidarietà palestinese, cioè i palestinesi stessi e le loro prospettive di poter vivere sulla terra che appartiene loro.

Un conflitto religioso è quello in cui le azioni e la retorica del conflitto sono dominate  da simbolismi, argomentazioni e ideologie religiose. Ciò non significa che tutti o anche la maggior parte delle persone coinvolte nel conflitto sono religiosi o persone motivate dalla religione. È probabile che la maggioranza degli israeliani si opponga agli assalti incessanti dei coloni messianici alla moschea di Al Aqsa che hanno portato all’attuale escalation. Ma queste aggressioni da parte di attivisti ebrei motivati da ragioni  religiose estremiste hanno ora assunto la forma del conflitto. E questo non vale solo per gli israeliani. Sembra che la moschea di Al sia diventata il fattore unificante dei palestinesi. E questa unificazione è stato uno sviluppo positivo per i palestinesi. Se per qualche tempo è parso che ad Israele fosse riuscito a piegare la volontà dei palestinesi e a spezzare la loro capacità di combattere come un solo popolo, l’attuale assalto ebraico ad Al Aqsa ha unito i palestinesi e gli arabi e non solo i musulmani.

Ma cosa, in merito a questi sviluppi, spaventa gli attivisti della “Solidarity”? Perché i nostri mercanti della solidarietà di sinistra hanno paura dell’Islam e della religione in generale? È così difficile da vedere e capire come il martire (shaid) che grida “Allah è grande” (Allah hu Akbar) mentre va incontro al martirio sia religiosamente motivato? Una attivista devota mi ha scritto che difendere l’Islam è totalmente impossibile nell’America Ebraica. «È duro» - è stata la risposta che le ho dato - per quelli che supportano la Palestina il dover riconoscere i palestinesi per ciò che sono, piuttosto che cercare di inserirli nelle linee guida dell’ADL o dell’AIPAC. Ma io penso che il problema sia molto più ampio e profondo.

Se ho ragione e il conflitto si è ora trasformato in una guerra di religione (e io ho sempre ragione), allora possiamo cestinare tutta una futile terminologia che ci è stata imposta dagli attivisti progressiti ebrei. ”Colonialismo”, colonialismo di insediamento”, “apartheid”, “Stato Unico / due Stati”, “sionismo”, ecc., possono ben essere totalmente irrilevanti per la comprensione del conflitto. Tutto quello che questa terminologia trasmette è la falsa idea che il conflitto è di natura politica e che serva una soluzione politica in un punto immaginario del futuro. Ma a differenza dei contrasti politici, i conflitti religiosi non si risolvono mai con mezzi politici; al massimo, possono venire assopiti per un certo periodo di tempo.

Se il conflitto israelo-palestinese è una guerra di religione, allora l’esame minuzioso del Vecchio Testamento, del Talmud e di altri testi giudaici potrebbero rivelarci ciò che lo Stato Ebraico è nella sua forma attuale e dove sta mirando. Armageddon è chiaramente una risposta valida. Questa è la risposta offerta dai coloni ebrei che hanno preso d’assalto Al Aqsa. Uno stato di guerra totale è la loro missione. Non esattamente una visione del mondo pacifica, ecumenica, empatica, rivolta verso una una tolleranza e riconciliazione universale. Per gli ebrei fanatici che assaltano il Monte del Tempio, la coesistenza non è un’opzione. Per loro la celebrazione dell’essere eletti è la vera interpretazione della chiamata giudaica. Io non starei a discutere se questa è l’unica interpretazione del giudaismo, ma questa è certamente l’interpretazione giudaica che dà forma al conflitto in questo momento.

E se il conflitto israelo-palestinese è davvero una guerra di religione, dobbiamo prendere in considerazione il cambiamento del nostro approccio. Piuttosto che impegnarsi in un attivismo cosmetico e gentile che fa sentire taluni ebrei a proprio agio, dobbiamo apertamente chiedere uno scioglimento pacifico dello Stato Ebraico. Questo elemento cancerogeno ha destabilizzato l’intero Medio Oriente ed è la più grande minaccia della pace nel mondo. Questo esperimento imperiale britannico deve essere condotto immediatamente al suo termine.

Intervista a PressTV

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