lunedì 20 novembre 2017

La solidarietà come utopia necessaria in un libro di Stefano Rodotà, recensito da Teodoro Klitsche de la Grange

Stefano Rodotà, Solidarietà, un’utopia necessaria, Laterza Editore, Bari 2014, pp. 141, € 14,00.

In occasione della morte dell’autore, è stata distribuita nel circuito commerciale una nuova edizione di quest’opera, l’ultima di rilievo, pubblicata nel 2014.

Il giudizio che se ne riceve è che anche un giurista acuto come Rodotà se cede alle “idee-forza” della sinistra del XX secolo non riesce a cogliere l’essenza di ciò che indaga: nella specie, la solidarietà.

La quale è qua intesa come quell’insieme di rapporti sociali e relative regole che (deve) sussistere tra uomini, di guisa che il destino degli uni non sia indifferente agli altri, e in particolare fonda il dovere (pubblico) d’intervento per soccorrere i meno fortunati. Scrive l’autore  che, di fronte alle ostilità che suscita, la ragione della solidarietà “risiede nel suo essere un principio volto proprio a scardinare barriere, a congiungere, a esigere quasi il riconoscimento reciproco, e così a permettere la costruzione di legami sociali nella dimensione propria dell’universalismo. Di legami, si può aggiungere, fraterni, poiché la solidarietà si congiunge con la fraternità, in un gioco di rinvii linguistici che spinge verso radici comuni” (il corsivo è mio).

La solidarietà – sostiene l’autore – è un principio fondativo che “continuamente ci ricorda l’irriducibilità del mondo alla sola dimensione del mercato”. D’accordo: il mondo non è riducibile solo a quello. Ma lo è ad una dimensione non politica essenzialmente economico-sociale?

In realtà, se accompagnati dall’autore, si ripercorre il cammino che portò la solidarietà “giuridicizzata” a passare dallo stato “morale” a quello giuridico, la conclusione che se ne ricava è diversa da quella di Rodotà. Il quale, per l’ordinamento italiano ricorda in particolare la relazione del guardasigilli al codice civile del 1942, dov’è richiamata la solidarietà corporativa; e più ancora l’art. 2 della Costituzione italiana “con la connessione diretta istituita tra il riconoscimento e la garanzia dei diritti fondamentali e «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»”. Si noti la successione enunciata nella suddetta norma: la solidarietà è (1) politica (2) economica (3) sociale.

Se invece si va a leggere il seguito del saggio, Rodotà la declina come (1) fonte di doveri e diritti sociali, insistendovi molto (2) economici (trattandone abbastanza) (3) e (per nulla) politici. La “scala” è inversa rispetto alla disposizione costituzionale cennata. Intendendo come politico non tanto il dovere di assicurare i mezzi per il godimento di diritti “solidaristici” a carattere economico e sociale, ma quale condizione d’esistenza e vitalità dell’istituzione (e quindi del potere) e disciplina dei relativi doveri (e diritti).

Perché a differenza dei principi dell’89 di libertà ed eguaglianza, cui la solidarietà, per la stretta parentela alla fratellanza, è connessa, c’è una differenza fondamentale. Infatti libertà (nel senso dello Stato borghese, cioè con garanzia dei diritti fondamentali e della distinzione dei poteri) ed eguaglianza non connotano tutti i tipi e forme di Stato, ma solo una parte, e solo nella modernità, Di Stati (o meglio di sintesi politiche) in cui la libertà interessasse poco o punto (dai dispotismi “idraulici” ai totalitarismi del XIX secolo), come, del pari, l’eguaglianza (praticamente tutte le aristocrazie e gran parte delle monarchie), ne sono esistiti tanti nella storia; ma di sintesi politiche senza solidarietà politica (e in qualche misura, anche se modesta, economica e sociale) non ce n’è nessuna vitale (ossia in grado di durare almeno uno – due decenni). La solidarietà politica, menzionata quale principio fondamentale è prima che tale, una condizione di esistenza e soprattutto di vitalità dell’ordinamento. Essere solidali significa, per tutti, più che destinare ai meno fortunati parte del proprio reddito, essere disposti a sacrificare la vita (art. 52 Costituzione) per difendere quella dei propri concittadini e l’esistenza della comunità. Per i governanti di assicurare protezione ai governati; per questi obbedienza a quelli. Hobbes, nelle ultime pagine del Leviathan, sosteneva di aver esposto la mutua relazione tra protezione ed obbedienza: che è il primo (e più importante) aspetto della solidarietà politica, quello che fonda la solidità della sintesi politica.

Infatti se la protezione viene meno, come scriveva il filosofo di Malmesbury, viene meno anche il dovere di obbedienza (e viceversa). E Miglio, scrivendo dell’obbligazione politica ricorda “non solo i seguaci debbono essere fedeli ai capi ma si chiede anche che i capi stiano con i seguaci nella buona e nell’avversa sorte”.

È difficile pensare che possa durare e quindi essere vitale un regime politico in cui il governante programmi di vendere i sudditi un “tanto ‘er mazzo” come il Re di Belli: un assetto predatorio totale – che è l’inverso di quello solidaristico - è un regime di breve durata. Il tempo di un’invasione o di un’occupazione militare. Ma dato che è insito nel concetto d’istituzione (e di costituzione) quello di durata, non è possibile un regime politico vitale senza un cero “tasso” di solidarietà.

Proprio la Costituzione italiana ce lo ricorda. Con il dovere di solidarietà dell’art. 2, articolato in doveri richiamati specificamente in obblighi normativamente previsti (v. artt. 52-53-54). E la stessa costituzione li disciplina sia riconoscendone il carattere politico sia collocandoli nella parte I (diritti e doveri dei cittadini), anche se alcuni di quei doveri sono osservandi anche dai non cittadini. Dovere di difesa, obbligo di pagamento delle imposte, dovere di fedeltà alla Repubblica e alle leggi: tutte articolazioni (anche) della solidarietà – e non solo – senza le quali non è possibile concepire un’istituzione politica durevole dove la protezione corrisponda all’obbedienza.

Profilo che, ad onta della straordinaria bellezza che la sinistra riconosce alla Costituzione vigente, proprio il pensiero dominante progressista di questo lungo autunno della Repubblica ha smarrito.

Nel libro di Rodotà si parla infatti di solidarietà in relazione ai matrimoni tra omosessuali, agli uteri in affitto, e soprattutto in rapporto alle differenze economiche e sociali ed alla necessità di ridurle. Su tutto si può – in parte – concordare, e più ancora sull’esigenza di non mercificare i rapporti umani praeter necessitatem. Ma ciò comunque offre una rappresentazione non tanto errata, quanto limitata e parziale della solidarietà. Oltretutto dimenticandone il carattere politico si confonde la dicotomia, fondamentale nel diritto postrivoluzionario, tra diritti dell’uomo e del cittadino. I quali non sono gli stessi e cui non corrispondono il/i medesimo/i dovere/i di solidarietà. A partire da quello di protezione – e relativa difesa – riconosciuta, almeno a partire dalla seconda Scolastica, ai governanti per i diritti della comunità e dei cittadini governati, ma insussistente per i diritti dei non-cittadini; come scriveva Francisco Suarez, stigmatizzando il carattere dis-ordinatorio e bellogeno delle pretese di tutelare diritti di non appartenenti alla comunità (v. oggi le guerre per i diritti umani).

Se quindi la solidarietà politica è dovere essenzialmente nei confronti (e tra) cittadini, verso i non-cittadini non lo è, o lo è in misura enormemente inferiore e diversa. Nel primo caso la solidarietà è componente del rapporto di amicizia (nel senso dell’amicus-hostis schmittiano) nel secondo sulla comune umanità, e ovviamente è più sfumata e comunque diversa.L’appartenenza alla comunità e quindi la soggezione all’istituzione politica in cui è organizzata.
 
Teodoro Klitsche de la Grange
                                                                  
                                                                 

Il Principe di Gaetano Mosca, recensito da Teodoro Klitsche de la Grange


Gaetano Mosca, Il Principe di Machiavelli, Ed. Il Foglio, Piombino 2017, pp. 103, € 12,00.

Ottima idea questa, di una nuova edizione nella collana “Biblioteca di scienze politiche e sociali”, diretta da Carlo Gambescia e da Jeronimo Molina Cano, del saggio di Gaetano Mosca sul “Principe di Machiavelli” pubblicato (in italiano) nel 1927, in questo volume preceduto da un attento saggio dello stesso Gambescia.

Leggere “il padre nobile” del realismo nelle scienze politiche (e umane), interpretato da uno dei suoi epigoni più brillanti del secolo scorso è sicuramente di grande interesse.

Scrive Gambescia che “Mosca, da scienziato sociale, quindi come ricercatore di costanti, si pone subito due questioni. La sua analisi, sia detto per inciso, va oltre il Principe, per abbracciare l’intero pensiero del Segretario.

La prima: se Machiavelli «può essere considerato come il fondatore, o almeno il precursore, di una vera scienza politica, come colui che, dopo Aristotele, ha per primo enunciato alcuni canoni fondamentali sulla natura politica dell’uomo, ossia sulle tendenze costanti ed indistruttibili che in ogni società umana politicamente organizzata possono riscontrarsi».

La seconda: «Vedere quanto meno se egli è riuscito a formulare una serie di precetti che possono servire come una buona guida pratica agli uomini politici di tutti i tempio e di tutti i luoghi»”; dopo aver tolto di mezzo la questione dell’immoralità del Principe, Mosca si interroga sul Machiavelli fondatore della scienza politica. La sua risposta è negativa: «Machiavelli ebbe senza dubbio due intuizioni felicissime, anzi per i tempi in cui scrisse veramente geniali; egli cioè comprese che la spiegazione della prosperità e della decadenza degli organismi politici va ricercata nell’esame delle loro vicende, e perciò nella storia del loro passato, e comprese pure che, in tutti i popoli arrivati ad un certo grado di civiltà, si possono riscontrare alcune tendenze politiche generali e costanti».

Tuttavia «quando egli scrisse il Principe ed anche i Discorsi, l’indagine e la critica storica erano nell’infanzia»; per cui “non creò una scienza politica perché gli faceva difetto i materiali per costruirla ed anche per gettarne le fondamenta e perciò si limitò, ed altro non poteva fare, a tracciare alcune delle linee sulle quali l’edificio potea sorgere ed a gettarne la prima pietra. Se fosse nato almeno quattro secoli dopo avrebbe probabilmente saputo innalzare qualcuno dei muri maestri”.

Quanto all’altra questione, Mosca da anche qui, da un giudizio negativo, un po’ perché giudica Machiavelli “libresco”; in altre ingenuo (così nell’applicazione ai giorni suoi ed all’Italia delle Signorie di soluzioni adatte a quelli di Scipione ed alla Roma repubblicana); onde Gambescia conclude il proprio saggio introduttivo “gli aspetti deboli dell’approccio machiavelliano, dal punto di vista della tripartizione dell’euristica moschiana, sono nell’ordine”: a) l’enfatizzazione del ruolo (singolo) del capo; che a un teorico della classe politica come il costituzionalista siciliano appariva enfatizzato (ed errato); b) la sottovalutazione della “formula politica” come insieme di credenze ed ethos condiviso, anch’esso determinante nelle comunità politiche per Mosca; c) la scarsa o nulla attenzione che il Segretario fiorentino ha per la difesa giuridica, come “prevalere della legge e degli ordini pubblici sull’appetito degli uomini”. Termina Gambescia che “siamo dinanzi, non soltanto a ermeneutiche diverse, ma a due forme differenti di realismo politico”: ma il pensiero di Machiavelli, dei più scientifici e, quindi, neutrali (nel senso di Werthfrei).

Mosca, è così, in parte, critico di Machiavelli, e da atto che “per quel che riguarda la creazione della scienza politica, Machiavelli ebbe senza dubbio due intuizioni felicissime, anche per i tempi in cui scrisse veramente geniali”, che sono quelle evidenziate (e sopra trascritte) nel saggio di Gambescia; ciò che in altri termini significa che la natura politica dell’uomo presenta in tutti i tempi ed in tutti i luoghi una certa identità. Bisogna riconoscere che è “impossibile costruire una vera scienza politica sopra basi diverse da quelle testé accennate, come sarebbe stato impossibile di costruire un’economia politica scientifica e trovare le vere cause della prosperità economica o della povertà delle nazioni se, a cominciare dalla fine  del secolo decimottavo, gli economisti non avessero fondato le loro deduzioni sopra premesse analoghe sa quelle dalle quali Machiavelli volea partire per insegnare ai Principi”. Proprio perché quella convinzione era condivisa ed il lavoro già avviato, sia nella pratica che nella teoria, Adam Smith poté scrivere la “Ricchezza delle Nazioni”… “ai suoi tempi il passato ed il presente di parecchie nazioni europee gli fornivano già una quantità di esperienze economiche di fatti accertati e di nozioni precise che erano sufficienti a dargli un’idea  chiara delle leggi, ossia delle tendenze costanti, alle quali l’attività economica dell’uomo generalmente si conformava e si conforma. Lo stesso non potea fare Machiavelli, perché, quando egli scrisse il Principe ed anche i Discorsi, l’indagine e la critica storica erano nell’infanzia, anzi forse non erano neppure nate”. Quindi Machiavelli “non creò una scienza politica perché gli facevano difetto i materiali per costruirla”.

E nel concludere il saggio Mosca spiega la fortuna - che dura da cinque secoli – dell’opera di Machiavelli “Perché quest’uomo che pretese di insegnare ai suoi simili le arti dell’inganno, fu come scrittore uno dei più sinceri che mai siano stati al mondo. Quella che è l’onestà professionale dello scrittore, la quale consiste nell’esporre al lettore il vero pensiero di colui che scrive senza curarsi del successo o dell’insuccesso del libro, egli la possedette in grado eccezionale. E questa volta la sincerità ebbe fortuna, perché molto contribuì a far gustare il contenuto del Principe.

Machiavelli infine che fu onesto… volle dettare le regole dell’arte d’ingannare e di ciò che ora si chiamerebbe alto arrivismo. Non era il suo mestiere; se fosse stato davvero furbo ed un arrivista avrebbe, dato il suo ingegno, fatto una carriera assai più brillante, non sarebbe morto povero e si sarebbe ben guardato dallo scrivere il Principe. Giacché i veri furbi di tutti i tempi e di tutti i paesi sanno benissimo che la prima regola della loro arte consiste nel non rivelare agli altri i segreti del proprio giuoco”.

Ma di quei furbi nessuno conserva il ricordo mentre: a Machiavelli da secoli è riconosciuto di aver meritato il suo epitaffio: tanto nomini nullum par elogium.
Teodoro Klitsche de la Grange

sabato 11 novembre 2017

I rabbini di Neturei Karta a Roma, in conferenza presso il centro di cultura islamica Imam Mahdi

È deplorevole che all'evento nin venga dato il rilievo mediatico che avrebbe meritato, ma non vi è di che stupirsi. In Roma non vi si può svolgere nulla che sia sgradito alla comunità ebraica, forte di 10 mila persone su una popolazione romana di tre milioni di abitanti. I casi di censura e di negazione della sala dopo intervento ebraico sono innumerevoli e sarebbe istruttivo tenerne un registro completo. Lunedi, presso l’Associazione Islamica Imam Mahdi vi sarà una conferenza dei rabbini di International Neturei Karta. Appare difficile immaginare che possano anche forzare il centro islamico romano, come è avvenuto per sedi universitarie, centri culturali, librerie. Nello scorso anno si era addirittura tentato di impedire la presentazione di un libro, il primo volume della Storia del Sionismo di Alan Hart, in una sala, pagata, della Fiera romana del libro. Questo articolo è costituito oltre che da questa Prefazione introduttiva, di due parti. La prima ripresa da una testata cristiana sionista, che con un suo commento ha riportato il testo di Neturei Karta, ripreso dal blog di Maurizio Blondet, che salvo non sia un mio proprio problema tecnico, non si riesce più a leggere nel sito originale: sabotaggio del Mossad? Ho avvisato il centro culturale islamico del sospetto aceraggio o sabotaggio della pagina di “Islamshia”, da cui è stato tratto il testo originale sotto riportato di terza mano, non potendo io accedere al sito originale.

 La seconda parte consiste invece nelle mie impressioni sorte in seguito alla conferenza in Roma del Rabbi Yisroel Dovid Weiss, alla quale ho assistito. Ho potuto fare una domanda proprio riguardo alle critiche di provenienza cristiano-sionista, di cui sotto, e ne ho avuto risposta, che riporto nella parte seconda. Il testo in carattere courier è della redazione cristiano-sionista di “Notizie su Israele”. Il sito americano di Neturei Karta lo si trova all'indirizzo www.nkusa.org, dove si trovano anche i documenti che sono stati illustrati nel corso della conferenza romana. Vi è già stata una prima conferenza il 9 novembre a Cesena, di cui è già disponibile il video You Tube. Anche per Roma, lunedi 13 è stata fatta la video registrazione, e credo seguirà a breve.

CL
(post in elaborazione)

I. 
NETUREI KARTA EDITO DA “NOTIZIE SU ISRAELE”,
RASSEGNA STAMPA CRISTIANO-SIONISTA O EVANGELICA

Neturei Karta intervistato da "Islamshia"

Riportiamo questo articolo da un blog dichiaratamente antisionista. Si tratta di un'intervista a un noto, piccolo gruppo ebraico che per motivi religiosi si schiera appassionatamente contro lo Stato d'Israele. Non ignoriamo o sottovalutiamo questa posizione; riteniamo anzi utile renderla nota affinché chi legge possa valutarla e dire se è d'accordo o no. E perché. NsI

D. E' vero che i Neturei Karta appoggiano la sovranità palestinese su tutta la Terra Santa?

R. La nostra risposta è inequivocabilmente Si. Comunque la risposta ha bisogno di qualche precisazione. Noi siamo un'organizzazione ortodossa antisionista: la nostra opposizione al sionismo si articola su vari livelli.
1) L'ideologia sionista costituisce una trasformazione dell'ebraismo da religione e spiritualità a nazionalismo e materialismo.
2) Il sionismo si è macchiato di gravi colpe nel trattamento del popolo palestinese.
3) L'Onnipotente ci ha espressamente proibito di ricreare la nostra identità nazionale durante questo nostro esilio da Lui ordinato.
4) La creazione di uno stato in Palestina nega la natura Divina della punizione dell'esilio del popolo ebraico e cerca di porre rimedio a una condizione spirituale con mezzi materiali.
5) Il sionismo ha dedicato molte delle sue energie a sradicare la tradizionale fede ebraica.

D. Qual è la vostra posizione?
R. Noi chiediamo, senza compromessi, lo smantellamento pacifico dello Stato di "Israele". La decisione di permettere o meno agli Ebrei di rimanere in Terra Santa dopo la conclusione di tale processo di smantellamento dipende interamente dai leader e dal popolo palestinese.

D. Non temete le possibili conseguenze per gli Ebrei che vivono in Terra Santa?
R. In realtà, noi temiamo di più per gli Ebrei che si trovano nella condizione attuale, una condizione senza speranza. Dopo quasi settant'anni, numerose guerre, continue azioni terroristiche e antiterroristiche, con la morte di civili innocenti da ambo le parti, non c'è alcuna soluzione in vista. Sia la destra che la sinistra israeliana hanno miseramente fallito nel loro tentativo di correggere questa situazione. Noi offriamo un'alternativa a quello che si è rivelato un tragico esperimento.

D. Ma, gli Ebrei non hanno diritto a una loro patria?
R. Nessun Ebreo fedele alla propria religione ha mai creduto, nei 1900 anni di esilio del nostro popolo, di doversi riprendere la Terra con un'azione militare. Tutti hanno creduto invece che, alla fine dei tempi, quando il Creatore deciderà di redimere l'umanità intera, allora tutti i popoli si uniranno per adorarLo. Sarà quello un periodo di fratellanza universale, che avrà il suo centro spirituale nella Terra Santa. Fino a quel momento il popolo ebraico ha un particolare compito durante l'esilio.

D. E qual è tale compito?
R. Accettare con fede il proprio esilio e, nelle parole e nei fatti, agire in modo da diventare modello di comportamento etico e di spiritualità, e il tutto con atteggiamento semplice ed umile. In altre parole, compiere la volontà dell'Onnipotente attraverso lo studio della Torah, la preghiera e un comportamento retto.

D. Come vedete il popolo palestinese?
R. E' la vittima della cecità morale del movimento sionista e del suo rifiuto ostinato di prendere in considerazione l'esistenza di altri popoli. I Palestinesi hanno diritto alla propria patria. E hanno diritto a un risarcimento finanziario per tutti i danni e le perdite subite negli ultimi decenni.

D. Quali sono state le vostre azioni in tale ambito?
R. Con l'aiuto dell'Onnipotente, noi spesso pubblichiamo dichiarazioni a sostegno di rivendicazioni palestinesi e in solidarietà con Ie loro sofferenze. Noi ci siamo uniti ai Palestinesi in proteste contro le violenze e gli abusi di cui sono stati vittime. Abbiamo cercato in genere di mantenere una presenza pubblica sia nel mondo ebraico che in quello islamico cosicché la venerabile tradizione ebraica di una opposizione religiosa al sionismo non fosse dimenticata. Per questo noi speriamo che, con l'aiuto dell'Eterno, la millenaria via della Torah possa ancora una volta prevalere in un futuro non lontano.

D. Cosa pensate dei negoziati di pace, Annapolis, Road Map, accordi di Oslo e simili tentativi?
R. Ogni sostegno per le sofferenze del popolo palestinese costituisce una piccolo vittoria ed è prova di una coscienza morale che ogni Ebreo dovrebbe avere. Tutti questi tentativi comunque, seppure dettati da buone intenzioni, sono destinati a fallire, in quanto agli Ebrei è proibito esercitare una sovranità politica sulla Terra Santa.
  Compito degli Ebrei è cercare la pace con tutti i popoli e non esercitare oppressione su nessun essere umano. Per tutte queste ragioni gli Ebrei sono obbligati a reintegrare i diritti dei Palestinesi e liberare la Palestina tutta. L'impresa sionista è destinata - a livello metafisico - a fallire sia sul piano morale che su quello pratico.

D. Quale dovrebbe essere l'atteggiamento ebraico nei confronti del mondo islamico?
R. Gli Ebrei debbono comportarsi in modo onesto e umano verso tutti i popoli. Il sionismo ha indotto molti Ebrei ad atti di aggressione contro il popolo palestinese. E' pertanto compito di tutti gli Ebrei correggere per quanto possibile questa situazione cercando la pace, la riconciliazione e il dialogo con il popolo palestinese e con il mondo islamico in genere. Questa è una delle grandi sfide spirituali del popolo ebraico: stabilire un rapporto morale con i propri fratelli musulmani.

D. Realisticamente parlando, pensate che il vostro programma sia realizzabile?
R. Per prima cosa va detto che il Creatore governa questo nostro mondo: a Lui tutto è possible e verità e giustizia alla fine prevarranno.
  Secondo, esiste un profondo senso di disillusione e stanchezza fra gli Ebrei di tutto il mondo riguardo allo Stato d'Israele e al sionismo in generale. Molti si rendono conto che seguire i principi del sionismo porta a un vicolo cieco dopo l'altro. Si desidera una diversa soluzione. La nostra soluzione, che si fonda sull'antica tradizione ebraica, appare sempre più plausibile a molti e può, in un futuro non lontano - e con l'aiuto dell'Eterno - rivelarsi la soluzione decisiva.
  Fino a quel momento noi speriamo e preghiamo che non ci siano altri spargimenti di sangue, né tra gli Ebrei, né tra gli Arabi. Aspettiamo ansiosamente il giorno in cui molti arriveranno a comprendere che la via per la pace si trova nel ritorno del popolo ebraico alla propria missione nell'esilio, cioè servire l'Eterno e vivere con integrità ed onestà. Sarà quello il giorno in cui si realizzerà finalmente il sogno espresso nelle nostre preghiere: "Tutte le nazioni si uniranno per compiere il Tuo volere nell'integrità dei loro intenti" E, nelle parole del Salmista, (102: 23) "Nazioni e governi si uniranno per servire l'Onnipotente." Possa ciò accadere presto, durante le nostre vite. Amen.
  NKI è un Ente Morale (non-profit) ebraico religioso, impegnato a pubblicizzare le posizioni antisioniste degli Ebrei ortodossi di tutto il mondo, i quali si oppongono fermamente allo Stato d'Israele e alle sue azioni. I NKI viaggiano per il mondo allo scopo di partecipare a manifestazioni e conferenze, al fine di parlare in varie occasioni sulla opposizione di sionismo ed ebraismo. I portavoce dei NKI sono disponibili a parlare a convegni e presso università di tutto il mondo, come pure ad essere intervistati alla radio o alla televisione.

(Blog Maurizio Blondet, 8 novembre 2017, trad. Massimo Mandolini Pesaresi)


*

Presa di posizione sullo Stato d’Israele

    Il popolo ebraico costituisce una nazione per un'esplicita volontà di Dio che non si è modificata con il tempo.
    L'attuale Stato d'Israele, costituito sulla sua terra, non è il regno messianico promesso a Davide, ma esprime la precisa volontà di Dio di costituirlo in un futuro più o meno prossimo.
    Dio non si aspetta che gli uomini edifichino il suo regno con le proprie mani, ma vuole verificare quale posizione ciascuno prende davanti alla manifestazione della sua volontà.
    Con una serie di prodigi che possono soltanto essere chiamati miracoli, Dio ha fatto in modo che si ricostituisse sulla terra d'Israele la nazione ebraica.
    Anche se per la ricostituzione di questa nazione Dio ha usato la sua potente autorità, ha voluto tuttavia che la fondazione dello Stato d'Israele avvenisse secondo gli usuali criteri di giustizia umana usati dalle nazioni affinché fosse evidente che chi vi si oppone è un ingiusto che vuole "soffocare la verità con l'ingiustizia" (Romani 1:18).
    Dio ama tutti gli uomini, ma la Scrittura rivela che esiste una successione storica temporale che non può essere trascurata: Dio ama "prima il giudeo, poi il greco" (Romani 1:16), prima Israele, poi le altre nazioni, proprio come ogni uomo moralmente sano ama prima sua moglie, poi tutti gli altri. Si dovrebbe diffidare di chi dice di amare tanto il prossimo ma mostra di non essere capace di amare sua moglie.
    Per il gentile che ha ottenuto il perdono dei suoi peccati credendo in Gesù come Signore e Salvatore, è - o dovrebbe essere - del tutto naturale sentirsi dalla parte d'Israele e schierarsi in sua difesa.
    Poiché Gesù continua ad amare Israele e aspetta il momento di "ricondurre a Dio Giacobbe" (Isaia 49:5) , la comunione spirituale con Lui provoca - o dovrebbe provocare - sentimenti di solidarietà e particolare amore per i membri di quel popolo, indipendentemente da come reagiscono davanti alla testimonianza del Vangelo.
    I veri credenti in Gesù devono aspettarsi, e accettare serenamente come parte del loro servizio di testimonianza, eventuali manifestazioni di anticristianesimo ebraico, ma devono essere del tutto intolleranti davanti a ogni forma di antisemitismo cristiano.
    Il concetto di nazione ebraica è fondato giuridicamente sull'atto costitutivo della promessa di Dio fatta ad Abramo e costituisce un elemento fondamentale a sostegno dell'esistenza e dell'identità del popolo ebraico.
    L'antisionismo, presentandosi come negazione del diritto degli ebrei ad avere una loro nazionalità, costituisce l'ultima forma di odio antiebraico. Il suo nome potrebbe essere "antisemitismo giuridico". Dopo l'antisemitismo teologico pseudocristiano e l'antisemitismo biologico pagano, quest'ultimo tipo di antisemitismo ha tutte le caratteristiche per diventare più esteso, più radicale, più viscido, e di conseguenza più pericoloso di tutti gli altri.

II.
CRITICA AL CRISTIANO-SIONISNO
in lingua italiana
(Notizie su Israele, redatte da Marcello Cicchese)

Mi pare inutile che io riassuma il contenuto della conferenza, con rischio di inesattezze, quando lo si può ben leggere nell'articolo che ne riassume i temi e nella video registrazione che si è tenuta già a Cesena ed il cui contenuto penso sarà eguale a quello della conferenza tenuta a Roma, di cui credo seguirà pure la video registrazione. Potrà essere utile vedere ed ascoltare entrambi le video registrazioni che sono state tradotte da un interprete. Io non ho ancora visto la video registrazione di Cesena, mentre ero di persona presente alla conferenza romana, che è stata preceduta da due presentazione. Ha parlato per prima un dotto teologo sciita, Hujjatulislam E. Emani,  in persiano, tradotto da una giovane donna che ho visto in altre circostanze simili.  Ho già ascoltato altre conferenze di Emani e ne ho apprezzato la dottrina. Ha poi parlato come portavoce della Comunità palestinese di Roma e del Lazio Salameh Ashour, che ormai incontro spesso e possiamo dirci amici. Ha parlato in un ottimo italiano dando un quadro generale della questione palestinese. È stato un intervento un poco lungo. La parte più interessante è stata forse quella che esprime la posizione morale dei palestinesi. È stata data quindi la parola al rabbino Rabbino anziano, mentre il più giovane curava la video registrazione. Io gli ero seduto accanto.

Verso il termine della conferenza il Rabbi si è dichiarato disponibile a ulteriori contatti, ed ha messo a disposizione il suo biglietto di visita. Ne ho appena approfittato scrivendogli questa lettera:

Caro Rabbi,
sono molto lieto di aver ascoltato la sua conferenza, che mi ha chiarito da un punto di vista teologico questioni che erano rimaste in me ancora aperte nel rapporto fra il “vero” ebraismo e quello che conosco in Roma per la presenza di una “comunità ebraica” di poche migliaia di persone che però hanno una influenza impressionante in una città di tre milioni di abitanti.

Ho capito grazie alla sua conferenza che il “vero” giudaismo, in quanto religione, è il suo, non quello che mi giunge dagli organi di stampa e descrive l'ebraismo romano ed italiano, tutto schiacciato sullo stato di Israele. La sua conferenza mi ha anche pacificato l'animo riguardo una certa mia avversione a un ebraismo tutto intriso e corrotto dal sionismo, che secondo la concezione di Gilad Atzmon è niente altro che una forma di primatismo razziale a carattere globale.

Sono uno spirito liberale ed ho pieno ed assoluto rispetto per ogni religione esistente e praticata in quanto religione. Se invece una religione tradisce la sua natura spirituale ed assume forma politica, non posso non assumere anche io una posizione politica, quella che meglio risponde ai miei interessi e alla mia identità.

Mi scuso se le scrivo in italiano, ma si tratta di concetti dove è bene essere precisi.

Le mie riflessioni sulla conferenza di lunedi a Roma, e sull'altra di Cesena che ascolterò in videoregistrazione, le potrà trovare in questo mio post:

https://civiumlibertas.blogspot.it/2017/11/i-rabbini-di-neturei-karta-roma-in.html
Ed in quest'altro dove replico a un libercolo sionista che in una sua pagina mi chiama in causa:
https://civiumlibertas.blogspot.it/2017/07/disamina-fuori-dal-coro-di-un-libercolo.html

Sono testi complessi ancora in elaborazione, dove ritorno di tanto in tanto quando ho tempo, o sopraggiunge una nuova idea, una nuova informazione.

Spero che ritorniate altre volte in Roma. Ci sarò sempre ad ascoltarvi...

Devo infine precisare: sono un filosofo, non particolarmente religioso, ma comunque cattolico battezzato e cresimato, e con poca e scarsa conoscenza del mondo ebraico, vorrei anche aggiungere: nessun interesse. Mi stupisco però che il Papa non abbia ricevuto voi e vada invece ogni anno a fare visita al rabbino di Roma, che dopo aver sentito lei, caro Rabbi, mi appare in una luce alquanto diversa, più legato alla politica che non alla religione. Si leggono oggi i necrologi di un rabbino italiano a cui viene attribuito un importante ruolo nel «dialogo ebraico-cristiano». Da cattolico e filosofo insorgo: non con lui doveva essere avviato il supposto “dialogo”, ma con voi che più autenticamente rappresentate la spiritualità ebraica. È assai eloquente come lei abbia potuto tenere in Roma la sua conferenza non nella Sinagoga, o in uno dei suoi numerosi e lussuosi centri, ma in un centro islamico, di quell'islam che la propaganda sionista vuole mettere in guerra con il mondo cristiano e cattolico.

Cordialmente e con spirito di amicizia e di pace

Antonio Caracciolo
 
Al termine della conferenza, essendo rimasto poco tempo per eventuale domande, sono stato svelto ad alzare per primo la mano.

(segue)

giovedì 26 ottobre 2017

L'Immigrazione: una risorsa o un'invasione? 1. Touhami Garnaoui: «L'immigrazione, strumento politico-finanziario».

Si è tenuto ieri e l'altro ieri, in Roma, un interessante incontro, il Convegno di Storia 2017, organizzato da Giovanna Canzano, sul tema della «Immigrazione: una risorsa o un’invasione», di grande attualità e tale da suscitare una fitta serie di interventi, succedutisi senza interruzione uno dopo l'altro, nei due pomeriggi di martedi e mercoledi. Molti degli intervenuti, io compreso, hanno parlato a braccio, ma alcuni come Touhami Garnaoui avevano preparato un testo che è stato letto e che viene qui pubblicato con gradimento del suo autore. D'intesa con l'organizzatrice e con i relatori pubblicherò ogni altro testo che dovesse pervenirmi. Il testo che segue, per renderlo immediatamente fruibile, è pubblicato con un “copia e incolla”, ma seguirà poi un più minuziosa lavoro redazione dove saranno e aggiunte a corredo anche delle illustrazioni, secondo il modo consueto di questo blog.
AC

L’IMMIGRAZIONE, STRUMENTO POLITICO-FINANZIARIO
di
Touhami Garnaoui

Nell'Episodio dell'Ospitalità di Abramo (Genesi 18, 1-15), leggiamo: “Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall'ingresso della tenda e si prostrò fino a terra,  dicendo: Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l'albero. Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire.”

Ci insegnano che la democrazia parlamentare è il giusto sistema politico per concretizzare quel sogno dell’umanità, espresso nella Genesi. Ma, mentre parlano di diritti universali, mentono, uccidono, rubano. Proteggono o installano al potere sceicchi e re arabi, movimenti islamici ieri considerati radicali e terroristi oggi moderati, oligarchi di estrema destra imposti sull’onda di false rivoluzioni fabbricate da ricchi agitatori professionisti, governi occidentali che fanno “proprio male alla pelle", per dirla con un'espressione colorita di Gaber (Io se fossi Dio). Vorrei qui ricordare le sconvolgenti dichiarazioni del PD, che ora i voti si chiamano "contributi per il programma " e che c'è pure "un treno di ascolto degli italiani" che sta attraversando in lungo e largo la nostra penisola. Un vagone riporta lo slogan: "destinazione Italia", ma non capisco francamente di quale Italia si tratti esattamente. Per non parlare della necessità esternata (che sembra da un malvivente!) di "aggredire il contante nascosto nelle case degli italiani". Ed ecco che vediamo gli affamati venire da ogni angolo della terra bussare à la porta dei paesi meno poveri dei propri paesi.

L’immigrazione, è una risorsa o un’invasione?

Ma, il Testo Unico sull’Immigrazione stabilisce che l’immigrato che non soddisfi i requisiti d’ingresso (documenti, disponibilità di mezzi e contratto di lavoro), non è ammesso in Italia, o è considerato una minaccia per la sicurezza nazionale o di uno dei Paesi con cui l'Italia ha siglato accordi per la libera circolazione delle persone tra le frontiere interne. Insomma non ha quei diritti alla vita che hanno avuto gli europei emigrati nelle Americhe, in Sud Africa, in Australia, a Ceuta e Mellila, nelle isole Falkland - Malvinas, etc. che non avevano bisogno per emigrare, di disponibilità di mezzi , altri che militari.

Mentre l’Europa è assalita dalle onde di migranti che tendono disperatamente a raggiungere le sue coste, provenienti da una drammatica lunga primavera, i discorsi si confondono fra coloro che vorrebbero rafforzare le barriere all’immigrazione per difendere i propri mercati interni, e coloro che ne difendono l’apertura per ragioni opposte di opportunità demografica, ed economica di una Europa che sta invecchiando al centro di un mondo globalizzato. Dopo il commercio ed i capitali, si chiede alle popolazioni di globalizzarsi e di inter-scambiarsi liberamente.  Non tutto, evidentemente, sarà bianco o sarà nero. Passatemi il gioco di parole. In ognuno di noi, c’è del bianco e del nero con diverse gradazioni di tonalità.  

E’ stata condotta una ricerca in dieci paesi in via di sviluppo con significativi tassi di emigrazione o immigrazione: Armenia, Burkina Faso, Cambogia, Costa Rica, Costa d'Avorio, Repubblica Dominicana, Georgia, Haiti, Marocco e Filippine. La ricerca, effettuata dal 2013 dall’Ocse in collaborazione con l’Ue, ha esaminato le diverse dimensioni della migrazione in settori chiave come: il mercato del lavoro, l'agricoltura, l'istruzione, gli investimenti e i servizi finanziari e la protezione sociale e sanitaria. Il rapporto finale, denominato “ Interrelations between public policies, migration and development”,  ha fornito ai governi la prova che la migrazione possa essere parte integrante dello sviluppo di questi paesi attuando politiche mirate.

Sembrerebbe dunque, secondo il rapporto, che l’immigrazione sia una risorsa per il paese di provenienza. Guardando, ad esempio, al caso del Marocco, diversi scritti dedicati alla storia dell’emigrazione marocchina in Italia mettono in evidenza che il consistente flusso di danaro fatto pervenire in Marocco abbia incentivato all’esodo molte persone rimaste sul posto. Un altro fattore di cui tenere anche conto consiste nel fatto che la comunità marocchina ha fortemente incrementato i ricongiungimenti familiari per cui, essendosi formate famiglie numerose, con il passare del tempo i risparmi vengono utilizzati in prevalenza per sostenere il processo di integrazione in Italia, spesso acquistandovi anche la casa. 

D’altro canto, secondo il Fmi, le migrazioni hanno un effetto positivo sull’economia nazionale dei paesi di accoglienza dell’Unione europea; nel 2017 contribuiranno per lo 0,13 per cento al tasso di crescita del Pil. Lo studio del Fondo Monetario, non tiene conto, però, dei costi relativi all’assimilazione di questa forza lavoro aggiuntiva, dagli alloggi ai corsi di lingua. Ma soprattutto non analizza le conseguenze sociali di un’emigrazione biblica verso l’Europa. Ed è proprio questo il tema politico più caldo al momento.

Abbiamo sentito parlare di misteriosi derivati finanziari che, invece di aiutare le famiglie a diventare proprietari della propria casa e di fare studiare i propri figli, hanno portato ad una crisi economica mondiale di cui non si vede la fine. I beni sottostanti scambiati, di natura finanziaria (come ad esempio i titoli azionari, i tassi di interesse e di cambio, gli indici) o di natura reale (come ad esempio il caffè, il cacao, l'oro, il petrolio, il gas, l’uranio) hanno favorito i pochi e arrecato danni ai molti. Gli interscambi di popolazione preoccupano maggiormente, perché si svolgono su un mercato meno libero.

Mercati, risorse per gli uni o per gli altri, ricchezze, valore aggiunto, disponibilità di mezzi, contratto di lavoro, sono variabili economiche, o se vogliamo socio-economiche. Ma il problema dell’immigrazione che angoscia fortemente, anche giustamente, i cittadini è innanzitutto  di carattere socio-politico-finanziario.

Anche se l’impero romano è stato multirazziale, multietnico e multi confessionale, l’immigrazione rappresenta in Italia un fenomeno tutto sommato recente, cresciuto presso a poco negli ultimi 35 anni, e diventato più intenso all’inizio del nostro terzo millennio, dopo il famoso discorso alla radio da Camp David del presidente americano G. Bush Jr, all’indomani dei presunti attentati alle Torri Gemelli. Le sue parole sono state: “"Siamo in guerra". Non si sapeva ancora chi sarebbe stato il nemico di questa guerra, ma Bush aveva promesso solennemente al suo popolo una risposta americana "ampia, prolungata ed efficace.” Egli disse: “Vi sarà richiesto di essere decisi, perché il conflitto non sarà facile. Vi sarà chiesto di essere forti perché la strada che porta alla vittoria potrebbe essere lunga".

Ora che la guerra americana ha fatto un bel pezzo di strada, senza che si intravveda tutt’ora la vittoria promessa agli americani, si comincia a capire chi è il nemico od i nemici in questa guerra, nel groviglio delle quotidiane notizie, in parte vere ed in parte prefabbricate in luoghi simili a Hollywood, più come strumenti di guerra che come corretta informazione dell’opinione pubblica. Dopo la sconfitta dei Talebani in Afghanistan, poi la distruzione dell’Iraq e, soprattutto, con la morte annunciata successivamente di Bin Laden e la caduta contemporanea dei regimi dittatoriali in Tunisia ed in Egitto, si ebbe la sensazione, che fosse stato debellato finalmente il terrorismo di al Qaeda e di tutta la  galassia dei gruppi ad essa collegati. Dunque tutti a casa, supposti invasori immigrati e veri invasori militari? Niente affatto. La guerra americana contro la dittatura ha ripreso subito contro la dittatura del libico Gheddafi e del siriano Assad, ma non contro il re dell’Arabia Saudita né contro gli altri monarchi arabi, e contro il nuovo terrorismo del deus ex macchina Stato Islamico, ricco, ben armato, ben addestrato, guidato da veri strateghi, mediatizzato, apparso in Iraq, Siria, Libia, e in altri paesi africani, sotto la guida del decretato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, a volte dato per morto, a volte resuscitato. Si dice, e non è difficile credere, che nessuno degli alti ufficiali dello Stato Islamico, detto pure Isis o anche Daesh, è arabo-mussulmano e nemmeno S.M. il Califfo delle tenebre. Comunque, lo Stato Islamico sembra aver perso definitivamente la sua guerra dopo la sconfitta a Raqqa, elevata, non si sa bene da chi, a simbolica capitale. Ora una nuova prova di forza degli Usa viene diretta contro la Corea del Nord, con dei Bombardieri strategici -1B Lancers, in grado di sganciare ordigni nucleari.

La dimensione del fenomeno migratorio

Per avere un’idea dell’estensione della guerra fino a questo momento, osserviamo che il numero delle vittime italiane sui campi di guerre americane dal 1990 al 2001, caduti in Iraq, Somalia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia, Kosovo, Albania, è pari ad una cinquantina circa; questo numero salirà al doppio dal 2001 ad oggi, morti in Afghanistan, Iraq, Libano, Libia, di cui una trentina dal 2011 ad oggi, cioè durante il periodo della cosiddetta Primavera araba.

Per quanto riguarda, invece, il numero degli emigrati morti prima di approdare sui lidi italiani, cioè prima di poterli chiamare immigrati, la Fondazione Ismu (Iniziativa e Studi sulla Multietnicità) ricorda che da allora sono state numerose le morti avvenute nel Mediterraneo. Secondo le stime più attendibili di UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e IOM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) dal 2014 ad oggi sono più di 15mila i migranti che hanno perso la vita in mare, più di 11 morti al giorno dal 2014, con una forte ripresa nel corrente mese di ottobre.

Morti e dispersi nel Mediterraneo. Anni 2014-2017

Fonte: elaborazioni ISMU su dati UNHCR e OIM

I morti e dispersi provengono per il 90 % circa dal Mediterraneo centrale, e per il 10 % dal Mediterraneo Orientale e in minima parte dal Méditerraneo Occidentale.

Chissà se fra loro non ci siano dei nipoti di coloro che vennero  strappati dalla Francia alla loro terra occupata per andare a liberare le metropoli europee dagli eserciti nazisti e fascisti, e che vengono descritti come violentatori nel famoso film “ La Ciociara” tratto dall’omonimo libro di Alberto Moravia!

Il numero degli arrivati via mare nel 2015 era 1.015.078. Di questo milione di persone, indicato dall’Unhcr, 856 mila sono sbarcate in Grecia, paese in ginocchio già per il fatto suo, e 153 mila in Italia. Nel 2016, sono sbarcate 181.400 in Italia e 173.450 in Grecia. 

L’accordo dell’Unione europea con la Turchia e la chiusura della rotta balcanica, hanno azzerato (quasi) il flusso di migranti che approdavano sulle isole greche dalle coste turche, persone che, nel 90% dei casi, provenivano dal teatro di guerra della Siria, ma anche da quelli dell’Afghanistan e dall’Iraq funestato, quest’ultimo, da decenni di guerre e terrorismi con milioni di morti e feriti, fra cui 500.000 bambini, chiamati giusto prezzo della guerra dalla signora Madeleine Albright. Dal famigerato campo di Idomeni, il più grande campo profughi d’Europa, definito la Dachau dei giorni nostri, in Grecia, al confine con la Macedonia, si è spostati alla Turchia con la sfida all’accoglienza per  circa tre milioni di profughi siriani.

Sul momentaneo calo di arrivi di immigrati del 20 % nel 2017  rispetto allo stesso periodo nel 2016, hanno inciso soprattutto i recenti sviluppi nelle relazioni Italia-Libia che hanno visto un aumento dei pattugliamenti della guardia costiera libica e della marina militare italiana che hanno fermato numerosi migranti africani pronti a partire, a volte causando l’annegamento di centinaia di migranti prima di approdare sulle coste italiane.

Come viene percepito oggi il fenomeno immigrazione

Non assistiamo ancora, per fortuna, alla preghiera del “rosario alle frontiere” come in Polonia, dove  migliaia di cattolici polacchi, rispondendo all’appello della fondazione “Dios Solo Basta” hanno formato il 7 ottobre delle catene umane lungo i 3.511 km di frontiere del paese, con la Germania, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, l’Ucraina, la Bielorussia, la Lituania, la Russia, con dei pescherecci sul mar Baltico, e delle barche a vela e dei kayak sui fiumi,  recitando insieme il rosario e pregando Dio di “salvare la Polonia e il mondo”. Agli occhi dell’episcopato polacco si è trattato di un’iniziativa puramente religiosa, ma per gli ambienti politici cattolici e per i partecipanti, la recita del rosario rappresenta un’arma spirituale contro quello che considerano l’islamizzazione della Polonia e dell’Europa. La data del 7 ottobre è stata scelta per ricordare la vittoria della cristianità sui Turchi nella famosa battaglia di Lepanto, nel 1571.

Non sarebbe meglio, più pacifico e sicuramente più utile per tutti, sedersi in poltrona, e discutere dei problemi comuni, invece che stare sotto il trono di chi si diverte  a guardare scannarsi tra loro immigrati e residenti. Purtroppo, i tempi della Ragione non solo non sono ancora arrivati, ma arretrano ovunque. Alle recriminazioni degli uni che dicono siamo qui per fuggire alle vostre bombe, o perché siete la causa della desertificazione delle nostre terre e dell’imbarbarimento delle nostre nazioni, il che è anche vero, altri rispondono parlando di  immigrazione massiccia che nuoce al lavoro italiano, agli interventi sociali, che causa degrado urbano, che genera un aumento dei fenomeni  come la delinquenza, il terrorismo internazionale di matrice islamica, il jihadismo, ed anche questo è vero, al meno parzialmente vero. Gli approfittatori della situazione, come in tutte le situazioni di guerra, perché questa è guerra contro i poveri, come sempre, sono i soliti politici, i commercianti, i funzionari felloni che scoprono l’inganno in ogni legge, i mercanti del tempio di tutte le religioni. Cerchiamo di interpretare meglio i dati.

Per mancanza di tempo, ci soffermeremo soltanto su due aspetti: la questione dell’invasione islamica e l’alternativa “aiuti allo sviluppo”, tralasciando questioni pur importanti come il lavoro agli immigrati,  gli interventi sociali a loro favore, immigrazione e degrado urbano, immigrazione e delinquenza. Giusto due considerazioni al riguardo. 

La prima è che, secondo uno studio effettuato dal Centro Studi Luca d’Agliano e dal Collegio Carlo Alberto: “La qualità della forza lavoro immigrata si orienta in corrispondenza all’istruzione del Paese”. L’Italia spicca tra i Paesi che hanno la più bassa percentuale di “nativi” (così vengono definiti nella ricerca) con istruzione terziaria e infatti accoglie meno immigrati con istruzione terziaria.

La seconda considerazione è relativa alla spesa pubblica e al contributo degli immigrati. Sommando le diverse voci (sanità, scuola, servizi sociali, casa, giustizia, accoglienza e rimpatri e trasferimenti economici), per l’anno 2014 si arriva a 14,7 miliardi di euro, pari a circa l’1,8 per cento del totale della spesa pubblica italiana. Considerando poi che le principali voci di spesa pubblica italiana sono sanità e pensioni, appare chiaro come siano rivolte principalmente alla popolazione anziana, con una minore incidenza della componente straniera (popolazione straniera occupata nel 2015: 2.259.065 su un totale di 5 milioni di regolari e 175-180mila profughi).

Dal lato delle entrate, invece, le voci principali sono il gettito Irpef e i contributi previdenziali (che, pur non essendo una vera e propria imposta, nell’anno corrente contribuiscono al sostegno della spesa pensionistica). Sommando anche le altre voci minori di entrata (imposta sui consumi, carburanti, lotto e lotterie, permessi di soggiorno, acquisizioni di cittadinanza), si ottiene un volume di 16,9 miliardi di euro (Gettito fiscale: € 6 miliardi e Contributi previdenziali: € 10.900), con un avanzo positivo di 2,2 miliardi di euro. In questo caso sono considerati solo i flussi finanziari diretti, ma andrebbero considerati anche alcuni benefici indiretti, come l’impatto sul volume dei consumi, specie in alcuni settori rivolti a fasce di reddito medio - basse.

Immigrazione, terrorismo, islamismo

Il 62,25% degli attentati viene compiuto per mano di organizzazioni europee, dai gruppi di estrema destra e sinistra a quelli anarchici, separatisti e anche animalisti. Il 15% circa, poi, sono perpetrati da movimenti anti-immigrati, il 4,08% da gruppi anti-Islam e solo il 3,89% sono attribuibili a gruppi jihadisti. Per il 14,2% degli attentati, infine, non si è riusciti a individuare i responsabili, anche se il 15% di questi hanno come vittime degli immigrati.

E’quanto è scritto in uno studio della ricercatrice italiana all’università britannica dell’Essex, Margherita Belgioioso, che ha analizzato gli attentati terroristici compiuti in Unione Europea nel biennio 2014-15 e che smentisce il collegamento immigrazione, terrorismo, islamismo. In realtà, gli attentati jihadisti rappresentano meno del 4% delle azioni sul suolo europeo”. La tesi dell’esistenza di un collegamento tra immigrazione e terrorismo jihadista viene ulteriormente smentita, nella ricerca di Belgioioso, dai numeri relativi ai soggetti direttamente responsabili degli attacchi in Ue. Solo il 6% di questi è stato compiuto da cittadini non europei, divisi tra migranti illegali (2,64%), migranti legali (2,64%) e soggetti con doppia cittadinanza (0,66%). Numeri esigui in confronto al restante 94%, cioè gli attentati compiuti da cittadini europei nati in Unione Europea. “Gli autori degli attacchi – precisa Belgioioso – sono nella stragrande maggioranza dei casi cittadini europei nati e cresciuti in Europa. E questo smonta l’ipotesi di un collegamento tra terrorismo e immigrazione    .

Nonostante questi numeri, conclude la ricercatrice nella sua ricerca, negli ultimi anni il terrorismo e la crisi migratoria hanno scalato la classifica delle preoccupazioni tra i cittadini europei. “Questo – conclude – è dovuto a una sovraesposizione mediatica degli attacchi di matrice islamista. I media danno molto risalto agli attentati compiuti dalle organizzazioni jihadiste, mentre spesso ignorano o offrono meno particolari su quelli portati a termine dalle organizzazioni europee”.  L’allarmismo mediatico è martellante: Ecco cosa si può leggere su una stampa a servizio di lobby e non di servizio al cittadino: Dopo gli attentati a Parigi: “Seppellire i terroristi islamici in pelli di maiale”, oppure:“Il terrorismo islamico non conosce frontiere, né limiti morali; e l' immigrazione clandestina incontrollata ne aumenta il pericolo”. Poi magari vi si scopre la mano lunga dei servizi segreti europei, americani o israeliani. E ancora: “Secondo quanto riporta il quotidiano online El Confidencial, gli immigrati islamici di ISIS hanno messo nel mirino le spiagge europee”. Secondo altri, hanno messo nel mirino papa Francesco. Si legge ancora: “ Non è più un mistero: i terroristi islamici giungono in Europa coi gommoni.” Un’immgrazione “fantasma”. Un’invasione che fa paura.

Per gli scrittori come Oriana Fallaci, Magdi Allam e Bat Ye’Or, sarebbe un’invasione già in atto. Per quest’ultima, è in corso la  concretizzazione della profezia annunciata nel suo libro: Eurabia. Come l'Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita, libro largamente pubblicizzato sui canali Rai.

Immigrazione, “aiutiamoli a casa loro”

La consistenza complessiva delle truppe attualmente impiegate in Afganistan nell’ambito della missione NATO di assistenza militare Resolute Support (RS) è di 13.576 uomini, di cui 11.903 appartenenti a Paesi membri della Nato. Il contingente più numeroso è quello americano (6.941), seguito da quello italiano (1.037).

Sette miliardi e mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno, un milione e trecentomila euro al giorno è il costo della partecipazione dell’Italia alla "campagna militare afgana", la più lunga della nostra storia, secondo il rapporto 'Afghanistan, sedici anni dopo' (pubblicato dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane), che traccia un bilancio di questa guerra iniziata il 7 ottobre 2001. Questo  a fronte di 260 milioni  per la cooperazione civile in Afghanistan , per aiutare l’uomo afghano a rinunciare a fare indossare il burqa alla sua donna, e ad accettare i Mc Do, i King Burger e i dischi di Elvis Presley. 

I leader politici contrari al ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan si richiamano spesso alla necessità di difendere ben altri progressi fatti in questi anni. Vediamoli rapidamente. 

A parte un modestissimo miglioramento della condizione femminile (limitato alle aree urbane, attribuibili al lavoro delle organizzazioni internazionali e delle ONG, non alla NATO), l’Afganistan ha ancora oggi il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile (su mille nati, 113 decessi entro il primo anno di vita), tra le più basse aspettative di vita del pianeta (51 anni, terzultimo prima di Ciad e Guinea Bissau) ed è ancora uno dei Paesi più poveri del mondo (207° su 230 per ricchezza procapite). Politicamente, il regime integralista islamico afgano (fondato sulla sharìa e guidato da ex signori della guerra dell’Alleanza del Nord espressione della minoranza tagica) è tra i più inefficienti e corrotti al mondo ed è lontanissimo dallo standard minimo di una Stato di diritto democratico: censura, repressione del dissenso e tortura sono la norma.     

A questo si aggiunge il sistematico coinvolgimento di tutte le autorità governative, da quelle periferiche e a quelle centrali, nel business della droga (oppio ed eroina) rifiorito dal 2001 con effetti devastanti non solo nello stesso Afganistan (in dieci anni la tossicodipendenza è aumentata del 650% e oggi riguarda un afgano adulto su 12, con conseguente esplosione dell’Aids) ma anche in Occidente, compresa l’Italia, dove l’eroina proveniente dall’Afganistan si sta diffondendo tra i giovanissimi provocando un numero di vittime che non si vedeva dagli anni ’80. 

La cartina al tornasole dei “progressi” portati dalla presenza occidentale in Afghanistan è il crescente numero di afgani che cerca rifugio all’estero: tra i richiedenti asilo in Europa negli ultimi anni, gli afgani sono i più numerosi dopo i siriani.

Non conoscendo o conoscendo male tutto questo, né quello che succede in Eritrea, Somalia, Mali, in Libia, in Tunisia, è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi. Questo crea la paranoia dell’ ‘invasione’, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi e da lobby islamofobe. Ad esempio, Una co-produzione tra la multinazionale Entertainment One e l’italiana Palomar (quella del commissario Montalbano) è stata stretta per la realizzazione di una serie tv Gaddafi che racconterà la storia di Muammar Gaddafi presentato come un tiranno sanguinario e il suo impatto sul mondo odierno. Serie Creata e sceneggiata da Roberto Saviano (Gomorra) e  Nadav Schirman. La serie recitata in lingua inglese sarà prodotta dalla Carrie Stein e dalla scrittrice Polly Williams della eOne, da Carlo Degli Esposti e Nicola Serra della Palomar. I diritti a livello mondiale sono controllati dalla EOne. 

Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact , contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti. Ma i disperati della storia nessuno li fermerà. Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al Sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: “Aiutamoli a casa loro”, dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica. E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti e della Liberté, Egalité, Fraternité.

CONCLUSIONI

L’immigrato non è il problema dell’Italia, ma è un problema, un individuo che vive in un ambiente particolare che egli subisce. Anziché collocare la sicurezza e la convivenza "fra i problemi" dell’Italia, questi vengono indicati come "i problemi"  dell’Italia, con una enfatizzazione di questi che lascia sullo sfondo altre questioni che incidono in maniera sicuramente superiore sulla qualità della vita e sul senso di sicurezza dei cittadini. Quel che ne emerge è una equazione immigrazione = degrado = criminalità e terrorismo = islamizzazione dell’Europa, che lascia spazio soltanto a strumenti e a linguaggi di ordine pubblico. Vorrei che le persone percepiscano diversamente l’immigrato, senza pregiudizi, senza dare troppo ascolto ai mass media che hanno smesso da tempo di educare l’opinione pubblica e si sono messi a servizio a tempo pieno del Grande Fratello. Dobbiamo considerare che il fattore umano è il fattore più importante qui e ovunque nel mondo. Perciò si fanno ancora figli per fortuna. Perciò si viaggia per incontrare e imparare da realtà diverse. Uno dei più straordinari e fruttuosi gesti di pace nella storia del dialogo tra Islam e Cristianesimo, non è rappresentato per caso dall'incontro tra Francesco d'Assisi e il Sultano di Egitto  Malik al Kamil? Francesco non ragionava con i criteri ideologici della casta finanziaria commerciante e dei parvenu della sua epoca. Vorrei anche che si presti maggiore attenzione alla politica nazionale che “fa proprio male alla pelle", e reagire non più soltanto in termini di destra e sinistra, ma in termini di cittadini non più passivi di fronte a dichiarazioni come quelle ricordate del PD, e all’opera continua dei media di scardinamento della nostra comune convivenza.

La dimensione del fenomeno immigratorio ed il livello di istruzione dell’immigrato, in un paese come l’Italia che attraversa un momento non proprio felice sia dal punto di vista della sovranità politica, sia da quello della qualità della vita dei cittadini, sia dal punto di vista del livello culturale generale, rimane comunque uno dei problemi che si affrontano quotidianamente nella vita. Combatterlo, lottando contro l’immigrato nella sua diversità porterebbe soltanto ad un alto potenziale di rischio. Questo significa che anche da un singolo avvenimento possono derivare manifestazioni violente come quelle di via Padova a Milano o il caso di Rosarno, o quello di  Borgo Mezzanone in provincia di Foggia.

Una prima lotta contro gli aspetti più negativi del fenomeno dovrebbe intanto partire da quella contro una politica schizofrenica e velleitaria. Ci sarebbe molto da dire per esempio sugli alti costi del sistema della cosiddetta accoglienza (centri Sprar e simili) che pure sono stati lambiti o addirittura causa di bella mafia. 

La vera lotta che potrebbe partire, secondo me, proprio dall’Italia, sta, tuttavia, nel frenare la politica aggressiva delle potenze al soldo dell’alta finanza, e della corsa terrificante agli armamenti di distruzione di massa, sia da parte di queste potenze sia da parte di altri paesi che si sentono minacciati a loro volta.

Grazie.

lunedì 9 ottobre 2017

Gilad Atzmon: 1. Prendilo dalla bocca del rabbino ebreo!

Recensione.
Vengono qui raccolti scritti selezionati di Gilad Atzmon sul sionismo. L’ordine non è necessariamente quello cronologico, ma quello di lettura e di studio. Data la difficoltà di avere subito pronta una traduzione italiana, viene qui dapprima pubblicato il testo inglese, e poi in un post successivo e collegato viene approntata gradualmente una traduzione italiana. Nelle prefazioni al testo verranno sviluppate eventuali riflessioni ispirate dalla lettura del testo. All'articolo su Civium Libertas è associata la condivisione sulla mia pagina Facebook. Per una visione complessiva del libro di Atzmon, in traduzione italiana, L’errante chi?, rinvio alla recensione del sacerdote cattolico don Curzio Nitoglia.



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Gilad Atzmon sul sionismo: 1. Take It From the Rabbi’s Mouth

Recensione.
Vengono qui raccolti scritti selezionati di Gilad Atzmon sul sionismo. L’ordine non è necessariamente quello cronologico, ma quello di lettura e di studio. Data la difficoltà di avere subito pronta una traduzione italiana, viene qui dapprima pubblicato il testo inglese, e poi in un post successivo e collegato viene approntata gradualmente una traduzione italiana. Nelle prefazioni al testo verranno sviluppate eventuali riflessioni ispirate dalla lettura del testo. All'articolo su Civium Libertas è associata la condivisione sulla mia pagina Facebook. Per una visione complessiva del libro di Atzmon, in traduzione italiana, L’errante chi?, rinvio alla recensione del sacerdote cattolico don Curzio Nitoglia.


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Fonte.

Take It From the Rabbi’s Mouth

October 08, 2017  /  Gilad Atzmon

    “The overwhelming majority of American Rabbis regard Zionism not only as fully consistent with Judaism but as a logical expression and implementation of it.””

— Document released on November 20, 1942 signed by 818 American Rabbis

The following  article was published on this site in May 2013. In recent weeks we have witnessed some anti Zionist rabbinical Jews  outraged by the attempt to equate Judaism and Zionism. I plan to write on the topic extensively, however,  a brief look at this 1942 rabbinical affirmation of Zionism  is rather revealing:
great-bios.jpg
Zionism: An Affirmation of Judaism
Introduction by Gilad Atzmon

Every so often we come across a Jewish ‘anti’ Zionist’  who argues that Zionism is not Judaism and vice versa. Interestingly enough, I have just come across an invaluable text that illuminates this question from a rabbinical perspective. Apparently back in 1942, 757 American Rabbis added their names to a public pronouncement titled ‘Zionism an Affirmation of Judaism’. This Rabbinical rally for Zionism was declared at the time “the largest public pronouncement in all Jewish history.”

Today, we tend to believe that world Jewry’s transition towards support for Israel followed the 1967 war though some mightargue that already in 1948, American Jews manifested a growing support for Zionism. However, this rabbinical pronouncement proves that as early as 1942, the American Jewish religious establishment was already deeply Zionist. And if this is not enough, the rabbis also regarded Zionism as the ‘implementation’ of Judaism. Seemingly, already then, the peak of World War two, the overwhelming majority of American Rabbis regarded Zionism, not only as fully consistent with Judaism, but as a “logical expression and implementation of it.”

In spite of the fact that early Zionist leaders were largely secular and the East European Jewish settler waves were driven by Jewish socialist ideology, the rabbis contend that “Zionism is not a secularist movement. It has its origins and roots in the authoritative religious texts of Judaism.

Those rabbis were not a bunch of ignoramuses. They were patriotic and nationalistic and they grasped that “universalism is not a contradiction of nationalism.” The rabbis tried to differentiate between contemporaneous German Nationalism and other national movements and they definitely wanted to believe that Zionism was categorically different to Nazism. “Nationalism as such, whether it be English, French, American or Jewish, is not in itself evil. It is only militaristic and chauvinistic nationalism, that nationalism which shamelessly flouts all mandates of international morality, which is evil.” But as we know, just three years after the liberation of Auschwitz the new Jewish State launched a devastating racially driven ethnic-cleansing campaign. Zionism has proven to be militaristic and chauvinistic.

Shockingly enough, back in 1942 as many as 757 American rabbis were able to predict the outcome of the war and they realised that the suffering of European Jewry would be translated into a Jewish State . “We are not so bold as to predict the nature of the international order which will emerge from the present war. It is altogether likely, and indeed it may be desirable, that all sovereign states shall under the coming peace surrender some of their sovereignty to achieve a just and peaceful world society (a Jewish State).”

Some American patriots today are concerned with Israeli-American dual nationality and the dual aspirations of American Jews. Apparently our rabbis addressed this topic too. According to them, there is no such conflict whatsoever. All American Jews are American patriots and all American decision makers are Zionists. “Every fair-minded American knows that American Jews have only one political allegiance--and that is to America. There is nothing in Zionism to impair this loyalty. Zionism has been endorsed in our generation by every President from Woodrow Wilson to Franklin Delano Roosevelt, and has been approved by the Congress of the United States. The noblest spirits in American life, statesmen, scholars, writers, ministers and leaders of labor and industry, have lent their sympathy and encouragement to the movement.”

Back in 1942 our American rabbis were bold enough to state that defeating Hitler was far from sufficient. For them, a full solution of the Jewish question could only take place in Palestine. “Jews, and all non-Jews who are sympathetically interested in the plight of Jewry, should bear in mind that the defeat of Hitler will not of itself normalize Jewish life in Europe. “

But there was one thing the American rabbis failed to mention – the Palestinian people. For some reason, those rabbis who knew much about ‘universalism’ and in particular Jewish ‘universalism’ showed very little concern to the people of the land. I guess that after all, chosennss is a form of blindness and rabbis probably know more about this than anyone else.


Zionism: An Affirmation of Judaism

http://zionistsout.blogspot.com/2008/03/zionism-affirmation-of-judaism.html

ZIONISMAN AFFIRMATIONOF JUDAISMA Reply by 757 Orthodox, Conservative and ReformRabbis of America to a Statement Issued by NinetyMembers of the Reform Rabbinate Charging ThatZionism Is Incompatible with the Teachings of Judaism

THE SUBJOINED REPLY was prepared at the initiative of the following Rabbis who submitted it to their colleagues throughout the country for signature: Philip S. Bernstein, Barnett R. Brickner, Israel Goldstein, James G. Heller, Mordecai M. Kaplan, B. L. Levinthal, Israel H. Levinthal, Louis M. Levitsky, Joshua Loth Liebman, Joseph H. Lookstein, Jacob R. Marcus, Abraham A. Neuman, Louis I. Newman, David de Sola Pool, Abba Hillel Silver, Milton Steinberg, and Stephen S. Wise.

WE, THE UNDERSIGNED RABBIS of all elements in American Jewish religious life,have noted with concern a statement by ninety of our colleagues in which they repudiate Zionism on the ground that it is inconsistent with Jewish religious and moral doctrine. This statement misrepresents Zionism and misinterprets historic Jewish religious teaching, and we should be derelict in our duty if we did not correct the misapprehensions which it is likely to foster.

We call attention in the first place to the fact that the signatories to this statement, for whom as fellow-Rabbis we have a high regard, represent no more than a very small fraction of the American rabbinate. They constitute a minority even of the rabbinate of Reform Judaism with which they are associated. The overwhelming majority of American Rabbis regard Zionism not only as fully consistent with Judaism but as a logical expression and implementation of it.

Our colleagues concede the need for Jewish immigration into Palestine as contributing towards a solution of the vast tragedy of Jewish homelessness. They profess themselves ready to encourage such settlement. They are aware of the important achievements, social and spiritual, of the Palestinian Jewish community and they pledge to it their unstinted support. And yet, subscribing to every practical accomplishment of Zionism, they have embarked upon a public criticism of it. In explanation of their opposition they advance the consideration that Zionism is nationalistic and secularistic. On both scores they maintain it is incompatible with the Jewish religion and its universalistic outlook. They protest against the political emphasis which, they say, is now paramount in the Zionist program and which, according to them, tends to confuse both Jews and Christians as to the place and function of the Jewish group in American society. They appeal to the prophets of ancient Israel for substantiation of their views.

TREASURING the doctrines and moral principles of our faith no less than they, devoted equally to America and its democratic processes and spirit, we nonetheless find every one of their contentions totally without foundation.

Zionism is not a secularist movement. It has its origins and roots in the authoritative religious texts of Judaism. Scripture and rabbinical literature alike are replete with the promise of the restoration of Israel to its ancestral home. Anti-Zionism, not Zionism, is a departure from the Jewish religion. Nothing in the entire pronouncement of our colleagues is more painful than their appeal to the prophets of Israel—to those very prophets whose inspired and recorded words of national rebirth and restoration nurtured and sustained the hope of Israel throughout the ages.



Nor is Zionism a denial of the universalistic teachings of Judaism. Universalism is not a contradiction of nationalism. Nationalism as such, whether it be English, French, American or Jewish, is not in itself evil. It is only militaristic and chauvinistic nationalism, that nationalism which shamelessly flouts all mandates of international morality, which is evil. The prophets of Israel looked forward to the time not when all national entities would be obliterated, but when all nations would walk in the light of the Lord, live by His law and learn war no more.

Our colleagues find themselves unable to subscribe to the political emphasis "now paramount in the Zionist program." We fail to perceive what it is to which they object. Is it to the fact that there are a regularly constituted Zionist organization and a Jewish Agency which deal with the mandatory government, the Colonial office, the League of Nations and other recognized political bodies? But obviously, even immigration and colonization are practical matters which require political action. The settlement of a half million Jews in Palestine since the last war was made possible by political action which culminated in the Balfour Declaration and the Palestine Mandate. There can be little hope of opening the doors of Palestine for mass Jewish immigration after the war without effective political action. Or is it that they object to the ultimate achievement by the Jewish community of Palestine of some form of Jewish statehood? We are not so bold as to predict the nature of the international order which will emerge from the present war. It is altogether likely, and indeed it may be desirable, that all sovereign states shall under the coming peace surrender some of their sovereignty to achieve a just and peaceful world society.

Certainly our colleagues will allow to the Jews of Palestine the same rights that are allowed to all other peoples resident on their own land. If Jews should ultimately come to constitute a majority of the population of Palestine, would our colleagues suggest that all other peoples in the post-war world shall be entitled to political self-determination, whatever form that may take, but the Jewish people in Palestine shall not have such a right? Or do they mean to suggest that the Jews in Palestine shall forever remain a minority in order not to achieve such political self-determination?

PROTESTING their sympathy both for the homeless Jews of the world and for their brethren in Palestine, our colleagues have by their pronouncement done all these a grave disservice. It may well be that to the degree to which their efforts arc at all effective, Jews who might otherwise have found a haven in Palestine will be denied one. The enemies of the Jewish homeland will be strengthened in their propaganda as a result of the aid which these Rabbis have given them. To the Jews of Palestine, facing the gravest danger in their history and fighting hard to maintain morale and hope in the teeth of the totalitarian menace, this pronouncement comes as a cruel blow.

We do not mean to imply that our colleagues intended it as such. We have no doubt that they are earnest about their fine spun theoretical objections to Zionism. We hold, however, that these objections have no merit, and further that voicing them at this time has been unwise and unkind.

We have not the least fear that our fellow Americans will be led to misconstrue the attitudes of American Jews to America because of their interest in Zionism. Every fair-minded American knows that American Jews have only one political allegiance--and that is to America. There is nothing in Zionism to impair this loyalty. Zionism has been endorsed in our generation by every President from Woodrow Wilson to Franklin Delano Roosevelt, and has been approved by the Congress of the United States. The noblest spirits in American life, statesmen, scholars, writers, ministers and leaders of labor and industry, have lent their sympathy and encouragement to the movement.

Jews, and all non-Jews who are sympathetically interested in the plight of Jewry, should bear in mind that the defeat of Hitler will not of itself normalize Jewish life in Europe.

An Allied peace which will not frankly face the problem of the national homelessness of the Jewish people will leave the age-old tragic status of European Jewry unchanged. The Jewish people is in danger of emerging from this war not only more torn and broken than any other people, but also without any prospects of a better and more secure future and without the hope that such tragedies will not recur again, and again. Following an Allied victory, the Jews of Europe, we are confident, will be restored to their political rights and to equality of citizenship. But they possessed these rights after the last war and yet the past twenty-five years have witnessed a rapid and appalling deterioration in their position. In any case, even after peace is restored Europe will be so ravaged and war-torn that large masses of Jews will elect migration to Palestine as a solution of their personal problems.

 Indeed, for most of these there may be no other substantial hope of economic, social and spiritual rehabilitation.



THE freedom which, we have faith, will come to all men and nations after this war, must come not only to Jews as individuals wherever they live, permitting them to share freedom on a plane of equality with all other men, but also to the Jewish people, as such, restored in its homeland, where at long last it will be a free people within a world federation of free peoples.



Of the 757 Rabbis listed below, 214 are members of the Central Conference of American Rabbis (Reform); 247 are members of the Rabbinical Assembly of America (Conservative); and the rest are affiliated with the Rabbinical Council of America (Orthodox) or the Union of Orthodox Rabbis. The total represents the largest number of rabbis whose signatures are attached to a public pronouncement in all Jewish history.

To see the scanned image in PDF format with the list of signers, click here



Note: A version of the above statement was released to the press on November 20, 1942. By that time 818 rabbis had signed on. It appears in Samuel Halperin's The Political World of American Zionism. (Detroit: Wayne State UP, 1961) 333.



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martedì 19 settembre 2017

Teodoro Klitsche de la Grange: «Sovranismo e libertà politica»

SOVRANISMO E LIBERTÁ POLITICA

1. Se si chiedesse, in un’inchiesta demoscopica, a cosa fa pensare la parola “sovranità”, oltre a una maggioranza di risposte improbabili, qualcuno risponderebbe ad una “autorità che giudica con decisioni inappellabili su ogni possibile oggetto e rapporto”. L’elemento più importante di una simile “definizione” è il soggetto, ossia che si tratta di un’ “autorità”. E ciò coincide con la concezione della sovranità interna allo Stato (alla sintesi politica). Se tuttavia si analizzano meglio, dal lato esterno, gli elementi essenziali del concetto, è necessario introdurre, per ottenere una definizione esaustiva (che ne comprenda quanti più elementi essenziali), il termine “antitetico” ad autorità, e cioè libertà. E questa non è contraddizione ma complementarietà: nella storia la formazione di sintesi politiche (Stati) si è realizzata, verso l’interno con la riduzione-relativizzazione dei poteri intermedi e, in una certa misura, dei diritti individuali, ossia nella costruzione di un potere irresistibile; all’esterno, attraverso la rivendicazione della esistenza politica indipendente (ovvero libera da interferenze e rapporti ineguali) della comunità (dell’istituzione) che rivendicava la sovranità.

La prima espressione politico-costituzionale di ciò l’offre la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti: “Quando nel corso degli umani eventi si rende necessario ad un popolo sciogliere i vincoli politici che lo avevano legato ad un altro ed assumere tra le altre potenze della terra quel posto distinto ed eguale cui ha diritto per Legge naturale e divina…” (1).

Questa è conseguenza naturale del potere (pubblico, di cui la sovranità e la “figura” apicale) di avere in se quali “poli” autorità e libertà e di doverli contemperare, senza poterli eliminare. Come scriveva de Maistre, è connaturato allo spirito europeo gravitare verso “quello Stato in cui il governante governa il meno possibile, e il governato è meno possibile governato. Sempre in guardia contro i suoi padroni, l’europeo ora li ha scacciati, ora ha opposto loro delle leggi. Ha tentato di tutto, ha esaurito tutte le forme immaginabili di governo per fare a meno di padroni o per ridurre il loro potere” onde “il più grosso problema europeo è di sapere come si possa ridurre il potere sovrano senza distruggerlo” (2).

Il problema, sosteneva de Bonald, consiste nel fatto che il potere è per sua natura indipendente: “Ogni potere è necessariamente indipendente dai soggetti sottoposti alla sua azione …. Potere e dipendenza si escludono l’un l’altro per definizione, come rotondo e quadrato” (3); onde, sul piano interno (allo Stato) conciliare potere e controlli sul potere è arduo e si corre il rischio o l’indebolire troppo il primo o, di converso, i secondi (4); perché, come riteneva de Bonald “il potere è esercitato in virtù di certe leggi che costituiscono il modo della sua esistenza e ne determinano la natura, e quando vien meno a queste leggi, pone in forse la sua esistenza, si snatura e cade nell’arbitrio” (5).

2. Nella dottrina dello Stato borghese la sovranità come indipendenza dall’esterno è – come in ogni Stato sovrano – riconosciuta, senza alcuna differenza rilevante rispetto a quella dello Stato assoluto.

Verso l’interno, invece, all’ “espropriazione/riduzione” dei poteri intermedi (connessa al principio di funzionalizzazione, per cui ogni potere pubblico è funzione, inalienabile ed inappropriabile da chiunque e attribuito alla sintesi politica) si accompagna la tutela dei diritti fondamentali (cioè della divisione Stato/società civile) e la distinzione dei poteri (nel senso di Montesquieu) con la conseguente giuridificazione dei rapporti di subordinazione/coordinazione tra potestà, organi, uffici pubblici.

 La combinazione del potere sovrano con i principi sopra ricordati dello Stato borghese ha fatto sì che l’esercizio delle manifestazioni peculiari di quello fosse confinato nell’emergenza: solo quando ricorre questa, l’“état de siége”, l’“Ausnahmezustand” o la “necessità” di Santi Romano, il potere sovrano manifesta tutto il proprio carattere d’assolutezza e definitività con la sospensione (anche) dei diritti fondamentali e vistose deroghe a competenze e assetti degli organi pubblici. Ovviamente questo è il caso classico dell’ “eccezione che conferma la regola”, cioè che il sovrano, in applicazione del detto romano salus rei publicae suprema lex, ha il potere di sospendere – nelle parti più garantite – il diritto (e i diritti) vigenti ove l’esistenza della comunità lo richieda.

Quanto all’aspetto esterno, i costruttori e i teorici dello Stato borghese, non avevano dubitato della sovranità della Nazione: a partire da chi, come Sieyès ne aveva fatto il centro delle rivendicazioni rivoluzionarie, e dal Comitato di salute pubblica de “La patrie en danger”; fino ai liberali e ai mazziniani del Risorgimento che volevano costituire, e costituirono, lo Stato quale istituzione politica della comunità nazionale, in un ordine internazionale in cui questa assumeva il proprio posto, uguale e libero come e tra le altre. Giustamente Benedetto Croce sosteneva che il capolavoro del liberalismo dell’‘800 fosse il Risorgimento italiano (6); con esso si costituirono insieme lo Stato nazionale (altrove opera della monarchia assoluta) e liberale: la sovranità (nell’ordinamento internazionale) e la libertà individuale e sociale.

Comunque nel pensiero liberale si è spesso fatta strada l’idea – peraltro tutt’altro che peregrina, attesi gli eccessi della rivoluzione francese, che, come scriveva Orlando “indebolire il potere è rinforzare la libertà” (7), e che è l’esatto opposto di quello che pensava Hegel ossia “che lo Stato è la realtà della libertà concreta” (8).

Nel XIX secolo tuttavia la conciliazione delle istanze della borghesia, integrata nelle strutture dello Stato attraverso (soprattutto) i Parlamenti e il carattere (relativamente) moderato della lotta politica fece si che la “contraddizione” autorità/liberta non fosse collocata ai posti prioritari dell’agenda politica. Nella prima metà del ‘900 si cercò di “conciliare” altrimenti il rapporto, eliminando (o credendo) di eliminare le sovranità.

Come scrive Schmitt nella Politische Theologie, furono in particolare Kelsen e Krabbe a sostenere ciò (9)  e il giurista di Plettenberg lo considerava conseguenza (logica) dell’ideologia liberale (10).

Altra conseguenza di un liberalismo debole contemporaneo è la dottrina del c.d. “neocostituzionalismo”, del quale L. M. Bandieri in un denso saggio (11) sostiene essere un normativismo di valori e non di norme.

3. Il c.d. “sovranismo” (male assoluto – almeno secondo le classi dirigenti in affanno), non è né contrario alla concezione liberal-borghese, almeno nelle sue connotazioni tradizionali (sopraricordate), né oppressivo della libertà, almeno se inteso come normalmente sembrano intenderlo i “sovranisti”, ossia quale difesa della autodeterminazione e dell’identità dei popoli. Tantomeno è poi contrapposto alla democrazia, anzi ne è conseguenza necessaria.

Quanto al primo aspetto è chiaro che altro è compulsare delle libertà civili e politiche all’interno, altro è deciderlo per proteggere la comunità dalle aggressioni e interferenze esterne.

L’ultimo esempio di ciò è stato l’ Ètat d’urgence deciso da Hollande (certo non un sovranista) in Francia: è vero che comporta, come tutte le emergenze  delle limitazioni alla libertà, ma, a parte la prassi consolidata al riguardo (anche delle liberaldemocrazie), cioè che lo distingue da situazioni apparentemente analoghe (regime dei colonnelli et similia) è lo scopo: li è di sopprimere la libertà, qua di conservarne gran parte, limitandone strettamente necessario (12). 

4. Scriveva S. Tommaso che è libero chi è causa di se (del suo): liber est qui causa sui est (13). Tale definizione metafisica della libertà pare la più adatta per significare essenza e condizione della sovranità. In tal senso il concetto di “suità” che se ne ricava corrisponde a quanto scrive Santi Romano per distinguere tra istituzione “perfetta” a quella che non lo è “Ci sono istituzioni che s’affermano perfette, che bastano, almeno fondamentalmente, a se medesime, che hanno pienezza di mezzi per conseguire scopi che sono loro esclusivi. Ce ne sono altre imperfette o meno perfette, che si appoggiano a istituzioni diverse, e ciò in vario senso. Può darsi infatti che a quest’ultimo esse siano soltanto coordinate; talvolta invece si hanno enti maggiori in cui le prime si comprendono e a cui sono subordinate” (14). 

D’altra parte sempre l’Aquinate sosteneva che è servo chi è di altri (servus autem est, qui id quod est, alterius est); e – commentando la “Politica” di Aristotele – la comunità politica perfetta è quella ordinata a garantire i mezzi ad un’esistenza indipendente.

Anche Bodin scriveva che sovrano è chi non dipende da altri (15).

Applicando tali criteri non sono né libere, né comunità perfette quelle che giuridicamente e politicamente dipendono da altri e pertanto non hanno la piena disponibilità di determinare i propri scopi né i mezzi per conseguirli. Questa, in diritto internazionale, era la condizione degli Stati sotto protettorato al tempo del colonialismo.

5. E questa indipendenza intesa come libera auto-determinazione e quindi indipendenza da altri, è l’essenza delle rivendicazioni sovraniste.

Anche se spesso i leaders politici identitari insistono su una pluralità di aspetti e di criteri differenziali (in particolare culturali, religiosi ed etnici) atti a discriminare tra cittadini e non, la suità, come libera autodeterminazione delle comunità e quindi degli scopi e dei mezzi appare il punto d’Archimede della loro concezione. E non solo perché la composizione di un’unità politica, la concessione della cittadinanza a gruppi di non-cittadini alterano il tutto, ma perché se sono libera determinazione della volontà comunitaria, non ledono il principio dell’essere causa sui.

Occorre, per chiarire il tutto, ricordare quanto sosteneva Renan nella celebre conferenza Qu’est-ce-que une nation? e adattarlo mutatis mutandis alla questione. Dopo aver affermato che “l’essenza di una nazione sta nel fatto che tutti i suoi individui condividano un patrimonio comune”; patrimonio che consiste di più legati: etnia, religione, lingua, geografia, comunanza d’interessi. Ma questo, prosegue Renan, non esaurisce quanto necessario per costituire una nazione. “Una nazione è un’anima, un principio spirituale. Due cose, le quali in realtà sono una stessa cosa sola, costituiscono quest’anima e questo principio spirituale: una è nel passato, l’altra è nel presente. Una è un comune possesso di una ricca eredità di ricordi: l’altra è il consenso presente, il desiderio di vivere insieme, la volontà di continuare a far valere l’eredità ricevuta indivisa. L’uomo, signori, non s’improvvisa”. La nazione “Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. L’esistenza di una nazione è (mi si perdoni la metafora) un plebiscito di tutti i giorni” perché “L’uomo non è schiavo né della propria razza, né della lingua, né della religione, né del corso dei fiumi, né della direzione delle catene montagnose. Una grande aggregazione di uomini, sana di spirito e generosa di cuore, crea una coscienza morale che si chiama nazione”. E chiarisce ulteriormente cosa intendeva “Se si sollevano dubbi sulle frontiere, consultate le popolazioni coinvolte. Esse hanno ben diritto di dare un parere sulla questione. Ecco una cosa che farà sorridere i geni della politica, quegli esseri infallibili che passano la vita a sbagliare e che, dall’alto dei loro superiori principi hanno compassione della nostra modesta proposta. Consultare le popolazioni! Quale ingenuità! È proprio una di quelle misere idee francesi che pretenderebbero di sostituire la diplomazia e la guerra con mezzi di così infantile semplicità”.

6. La sovranità è necessaria per avere un futuro comune; lo è ancor più per decidere quale debba essere. Se è democratica, non può prescindere dalla volontà popolare.

E d’altra parte le volontà “altre” nel modo contemporaneo sono meno quelle degli altri Stati che dei cosiddetti “poteri forti”, la cui caratteristica comune - che accomuna chiese e logge, sindacati e corporazioni - è di non essere democratici (quasi sempre), e sempre se ci riferisce alla volontà sovrana nella sintesi politica.

Non si capisce di converso, come sia possibile determinare un destino comune di un mondo globalizzato, in cui manca sia la comunità, e più ancora, un’istituzione politica credibile e responsabile. Nel noto saggio Impero di A. Negri e M. Hardt, la forma di governo dell’ “Impero” consiste in una nebulosa fatta di organizzazioni internazionali, lobby, FMI, Banca mondiale, sette, clubs, imprese multinazionali, in effetti prive di forma, intesa questa nel senso di un’istituzione capace di determinare pubblicamente e responsabilmente scopi (e mezzi) dell’esistenza comunitaria e dotata delle capacità e attribuzioni conferite all’uopo.

Tutte cose che si trovano in uno Stato sovrano ben ordinato e perfino in Stati relativamente disordinati, ma che non è dato percepire e distinguere in un quid senza forma e responsabilità. Per cui, in mancanza di alternative reali, è meglio tenersi il vecchio: Stato sovrano, democrazia e responsabilità dei governanti verso i governati.

Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE

(1) E conclude “Noi, pertanto, rappresentanti degli Stati Uniti d’America, riuniti in Congresso generale, appellandoci al Supremo Giudice dell’universo quanto alla rettitudine delle nostre intenzioni, solennemente proclamiamo e dichiariamo, in nome e per autorità dei buoni Popoli di queste Colonie, che queste Colonie Unite sono, e devono di diritto essere Stati liberi e indipendenti; che sono disciolte da ogni dovere di fedeltà verso la Corona britannica e che ogni vincolo politico fra di esse e lo Stato di Gran Bretagna è e dev’essere del tutto reciso; e che quali Stati Liberi e Indipendenti, esse avranno pieno potere di muovere guerra, di concludere la pace, di stipulare alleanze, di regolar il commercio, e di compiere tutti quegli altri atti che gli Stati Indipendenti possono di diritto compiere” (il corsivo è mio).

(2)  Du Pape, I

(3) Observations sur l’ouvrage De M. me La Baronne De Staël  trad. it. «La costituzione come esistenza» Roma 1985 p. 51.

(4) Va da se che, in uno Stato liberale il problema è insopprimibile, perché, come scritto nel “Federalista” dato che gli uomini non sono angeli e non sono angeli i governanti occorrono sia i governi che i controlli sui governi.

(5) Op. loc. cit.

(6)  “Se per la storia politica si potesse parlare di capolavori come per le opere dell’arte, il processo della indipendenza, libertà e unità d’Italia meriterebbe di esser detto il capolavoro dei movimenti liberali-nazionali del secolo decimo-nono: tanto ammirevole si vide in esso la contemperanza dei vari elementi, il rispetto dell’antico e l’innovare profondo, la prudenza sagace degli uomini di stato e l’impeto dei rivoluzionari e dei volontari, l’ardimento e la moderazione; tanto flessibile e coerente la logicità onde si svolse e pervenne al suo fine” Storia d’Europa nel secolo XIX, p. 224, Bari 1938.

(7) Più estesamente: “Gli Stati moderni europei retti con forme libere, sono detti per antonomasia rappresentativi, ma non è men vero che tutti gli Stati rappresentino il popolo, qualunque sia la loro forma. Ed è un altro pregiudizio che da quello deriva e che i casi speciali dell’epoca presente han coltivato, il credere il popolo continuamente in opposizione, anzi in lotta col governo, tendendo a strappargli dei diritti che esso gelosamente contende. In conseguenza, come disse, il Laveleye, pei liberali della vecchia scuola, indebolire il potere è rinforzare la libertà” in Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 572.

 (8) V. Lineamenti di filosofia del diritto, § 260.

(9) Riportiamo i passi salienti delle critiche di Schmitt: «Kelsen risolve il problema del concetto di sovranità semplicemente negandolo. La conclusione delle sue deduzioni è «Il concetto di sovranità dev’essere radicalmente eliminato». Di fattosi tratta ancora dell’antica negazione liberale dello Stato nei confronti del diritto e dell’ignoranza del problema autonomo della realizzazione del diritto. Questa concezione ha trovato un rappresentante significativo in H. Krabbe, la cui dottrina della sovranità del diritto riposa sulla tesi che ad essere sovrano non è lo Stato, bensì il diritto. Kelsen sembra scorgere in lui solo un precursore della sua dottrina dell’identità di Stato ed ordinamento giuridico. In verità la teoria di Krabbe ha una radice ideologica comune con il risultato di Kelsen”; secondo Krabbe “Lo Stato ha solo il compito di «costruire» il diritto: cioè di fissare il valore giuridico degli interessi … Lo Stato viene ridotto esclusivamente alla produzione del diritto” in Politische Theologie I, trad. it. in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 56.

(10)  Ma l’altra conseguenza logica, a considerare il liberalismo nel suo complesso, nella storia e nella prassi, e non solo quale “tipo ideale”, è proprio la tesi di Schmitt che iscrive lo Stato liberale nella categoria dello status mixtus quale compromesso tra principi di forma politica e principi dello Stato borghese, v. in particolare Verfassungslehere trad. it.  di A. Caracciolo, Milano 1984, p. 171 ss. ed anche 265 ss. di cui si ricorda il passo saliente “I principi della libertà borghese possono ben modificare e temperare uno Stato, ma da soli non fondano una forma politica. «La libertà non costituisce nulla», come ha detto giustamente Mazzini. Da ciò segue che in ogni costituzione con l’elemento dello Stato di diritto è connesso e misto un secondo elemento di principi politico-formali”.

(11)  Pubblicato in italiano su Behemoth (on-line) n. 54.

(12) “In un certo senso è adattabile al rapporto tra stato d’emergenza in un senso o nell’altro, questo scriveva V. E. Orlando sull’ “atto politico”. Ossia che a distinguerlo dal semplice atto amministrativo era assai più lo scopo che la “natura” dell’atto: “Bensì la distinzione acquista un’importanza effettiva, quando il carattere politico che vuolsi attribuire all’atto dipende non tanto dalla natura di esso quanto dallo scopo cui, a torto o a ragione, si dicono diretti: noi accenniamo a quegli atti  del potere esecutivo che infrangono le leggi sotto l’impulso di una pubblica necessità, assumendo per gistificazione il motto: salus reipubblicae suprema lex. Non è qui certamente luogo adatto per discutere la teoria di tali atti motivati da urgente necessità politica”. V. Digesto Italiano, Contenzioso amministrativo” vol. VIII p. 925

 (13) De regimine principum I, 1.

 (14) Santi Romano, L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 1967, p. 38 (il corsivo è mio).

  (15) I sei libri della Repubblica, Torino 1988, p. 407.