mercoledì 23 dicembre 2009

Il Natale di Gaza ad un anno da “Piombo Fuso”


Non ricordo di aver mai sofferto tanto, come lo scorso anno, durante le feste di Natale e di Capodanno. Non riuscivo, e non riesco, a capacitarmi come si potessero uccidere, massacrare tante persone inermi, chiuse in un “recinto” dal quale non potevano fuggire da nessuna parte, per tentare di mettersi in salvo. Ucciderle e massacrarle, come non si consente più di fare neppure con le bestie, giacché scattano subito le associazioni animaliste per dirci che, in fondo, gli animali non sono da meno degli esseri umani, anche quando di animali e di altre forme viventi noi ci dobbiamo cibare per poter vivere: ‘Mors tua vita mea!’. Poco importa che non si debba inutilmente seviziare un bovino: sempre nel nostro piatto deve finire! Non sono un grande conoscitore del mondo animale, ma mi sembra che gli animali, ognuno nel contesto della sua specie, abbiano più rispetto e pietà dei loro simili di quanto noi uomini non riusciamo ad averne per i nostri. L’uomo è probabilmente la più feroce di tutte le belve che siano mai esistite. E vale anche qui la relazione hobbesiana della pericolosità dell’uomo, la quale recita che l’uomo è molto più pericoloso (e crudele) di quanto le sue armi non siano più letali degli strumenti di offesa e difesa di cui dispongono gli animali: artigli, zanne, veleno… a fronte di fucili, cannoni, bombe al fosforo e tante altre armi sofisticate che ci restano segrete.

Intendiamoci, ciò che forse mi ha fatto più soffrire è l’ottusità morale e/o la cecità intellettuale che ha accompagnato e continua ad accompagnare una mattanza di uomini che non è affatto cessata da quando il rimbombo bellico dell’operazione “Piombo fuso” è ufficialmente terminato. Per chi, da allora, non si è distratto dall’evento, magari “cambiando canale”, gli annunci di morte non sono mai venuti meno. In ultimo, si apprende che la contaminazione dell’ambiente carcerario di Gaza pone a rischio la vita dei superstiti. Sto parlando, cioè, di quei “sopravvissuti” al genocidio – poiché di questo si tratta! – ed, in pratica, di coloro che non sono morti immediatamente, ma semplicemente ritardano la loro morte. Una morte che darà senz’altro meno nell’occhio, nel sistema dell’ipocrisia occidentale.

Già! Purtroppo, di ipocrisia… ne ho vista e continuo a vederne molta. Ma è un’ipocrisia più grave di quella alla quale siamo normalmente abituati. L’ipocrita in generale, in un certo senso, rende omaggio alla virtù poiché, in fondo, la riconosce, anche se tende ad eluderla ed a non rispettarla. Nel nostro tempo, invece, attraverso il “filtro” soggettivo e perverso dei media e del sistema dell’informazione, nonché dei politici che vi stanno dietro, ci vogliono persuadere – o almeno credono di poterci convincere – che l’omicidio, è autodifesa; che il carnefice, è la vittima; che la guerra, è pace; e così via…, con un completo rovesciamento di ogni codice morale al quale qualsiasi coscienza non irretita, non trattata dai “media”, era abituata. Si direbbe che la nostra epoca si caratterizza per un alto codice di moralità formale, ben definito sulla carta e stigmatizzato da solenni dichiarazioni, che si auto-sconfessa platealmente, ogni volta che dovrebbe essere applicato alla realtà di tutti i giorni.

L’oggettività del fatto – quella che rende liberi ed è una faticosa conquista della coscienza – è sempre più sostituita dalla propaganda, dalla falsa informazione, dal condizionamento ideologico. Un modo di fare che tende a reprimere e mettere a tacere il libero pensiero. Sono abbastanza relativista per non essere dogmatico e per non avere la presunzione di possedere in tasca la “verità”, la mia “verità”. Ma sono anche capace di non cadere nello scetticismo, sapendo che il fatto, anche quando non ha un suo alto grado di evidenza, può essere attinto dal dibattito, dal contraddittorio, perfino dallo scontro e dalla polemica aspra, ma non violenta. Il problema, però, è che l’altra voce (in questo caso, la nostra), viene messa sistematicamente a tacere. I dissidenti vengono perseguitati, imprigionati ed emarginati. Non occorre che fornisca esempi. Ognuno può andarseli a cercare da solo. Che fare dunque?

Resistere, resistere, resistere! Non so quanti Natali mi resteranno da vivere. Ma ormai, so con certezza che, ogni Natale che verrà, non vedrò davanti ai miei occhi nient’altro che l’inferno di Gaza. Non vi ho mai messo piede in quei luoghi e credo che mai vi andrò. Poco e nulla potrei fare per quei miei simili, per quell’umanità sofferente, per la quale molto spesso ci sentiamo sgravati, al prezzo di qualche lacrima e di qualche parola di circostanza. Insomma, un colpo al cerchio ed uno alla botte, senza essere obbligati a distinguere fra la vittima ed il carnefice. Ma so, ormai, che a Natale non vedrò più il Presepe, con tutta la retorica consumistica che accompagna questo genere di giornate. Vedrò sempre e soltanto l’inferno di Gaza.

lunedì 7 dicembre 2009

Freschi di stampa: 32. «Un parroco all’Inferno» genocidario di Gaza

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In una libreria romana ha avuto luogo la presentazione di un libro di un rimarchevole prete palestinese: Abuna Manuel Musallam, parroco a Gaza, che ha vissuto in quella regione per quattordici anni, fino ai giorni della tristemente celebre operazione militare israeliana denominata “Piombo Fuso”. Il libro in questione, sotto forma di intervista, è stato curato da don Nandino Capovilla, referente per l’Italia dell’organizzazione ‘Pax Christi International’. In pagine sofferte che lasciano il segno in chi legge, il sacerdote Musallam risponde alle articolate domande del suo intervistatore Capovilla. Nel corso della serata, il suddetto libro è stato altresì presentato da Paola Caridi che si è rivolta ad un piccolo gruppo di giornalisti e di blogger, fra i quali ero presente anch’io. E come altri, sono intervenuto al dibattito, quando mi è stato concesso di potermi esprimere. Ho naturalmente acquistato il libro, edito dalle edizioni Paoline, che era messo in vendita al prezzo di 13 euro. Ne parlo adesso, dopo averlo finito di leggere. Va da sé che, in questa sede, non voglio in nessun modo riassumere i contenuti del libro, né tanto meno farne la rituale recensione. Voglio, al contrario, cercare di rifletterci sopra, raccogliendo spunti dalle mie private esperienze di quest’anno. Un anno che volge alla fine, a quasi dodici mesi da “Piombo Fuso”, di cui mi rendo conto, oggi, del ruolo di vero e proprio spartiacque che ha giocato nella mia comprensione della contemporaneità.

Non vi è dubbio di sorta che in Gaza si consuma, sotto i nostri occhi, un vero e proprio genocidio. Il periodo denominato “Piombo Fuso”, compreso fra il 27 dicembre 2009 ed il 18 gennaio 2009, è solo una fase, particolarmente cruenta, di un “genocidio” che dura da almeno 61 anni. L’operazione “Piombo Fuso” si concluse ufficialmente pochi giorni prima che in Italia venisse celebrata, soprattutto nelle scuole, la ricorrenza del «Giorno della Memoria». Già, la ‘Memoria’! Ma quale Memoria? A quali onorevoli lobbisti dobbiamo la fissazione, per legge, di ‘Una Memoria’? Quasi che ognuno di noi fosse sprovvisto della sua propria ‘Memoria’ ed avesse bisogno del Governo che gli dica quale Memoria gli è consentita avere, in quale forma e con quali contenuti, e quale, invece, non gli è consentita. Per giunta, una ‘Memoria’ che quasi nessuno, ormai, può riscontrare per sua esperienza diretta, e per la quale, in parecchi paesi d’Europa, non è permessa la libera ricerca ed analisi storica. In Germania, ad esempio, ogni anno, all’incirca 15.000 persone vengono perseguite penalmente per meri reati di opinione. Laddove la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ed altre carte simili, riconoscono, come diritto fondamentale, la libertà di pensiero, il cui concreto contenuto viene in realtà sempre più ristretto ed eluso da leggi liberticide e cervellotiche prassi giurisprudenziali.

Se appena si tenta di solidarizzare con le vittime di una capillare ed occulta censura, si è immediatamente accomunati a queste ultime, e presi nel vortice di una moderna “caccia alla streghe” o di un redivivo “dagli all’untore!” Sembra incredibile. È incredibile. Purtroppo, però, è storia dei nostri giorni. E’ cronaca di una quotidianità che, attraverso un diabolico apparato mediatico, di cui ci si vuol togliere la possibilità di qualsiasi comprensione. La totale mancanza di pietà, la ferocia, la volontà di sterminio, è quanto emerge agli occhi e alla mente di chi appena voglia porsi lo scrupolo o la curiosità di andarsi a documentare su quanto sia, o possa essere, realmente successo. Anche se il governo israeliano ha fatto di tutto per tenere nascosta al mondo la mattanza di esseri umani in Palestina, la verità non può essere a lungo nascosta: è il parere di Paola Caridi. Hanno concorso all’occultamento della verità la stragrande maggioranza dei main stream occidentali. Come ben ricordiamo, infatti, i giornalisti occidentali, accreditati, non facevano altro che leggere… i comunicati ufficiali del dipartimento ‘pubbliche relazioni’ dell’esercito israeliano. Insomma: mai – come in quell’occasione - menzogna è stata più capillare.

Davanti alle parole del parroco cattolico Abuna Manuel, che ognuno dovrebbe senz’altro andare a leggere, non vi è menzogna che possa reggere. Poco dopo aver posto unilateralmente termine alla mattanza sul campo, il 18 gennaio del 2009, la macchina propagandista israeliana ha creato una serie diversivi, per allontanare l’attenzione dalla scena del crimine. Tra questi, è stato tirato fuori, come un proverbiale coniglio dal cilindro del mago, il vescovo Williamson, la cui colpa fu – se ben ricordo – quella di avere esternato opinioni di cui non aveva inteso far mistero. Che volete... In nome di un «Olocausto» remoto nel tempo, si è preteso, e si pretende, di legittimare un assimilabile e, forse, ben più grave «Olocausto», per durata, intensità ed assenza di ogni umana pietà. Non sono pochi i rabbini “nazionali” che giustificano tanta ferocia, un vero e proprio genocidio, in nome ed alla luce delle loro dottrine religiose. Nessuno chiede loro conto di simili enormità. Dopo il rapporto ONU di Richard Goldstone – un “ebreo”, per giunta “sionista” – che nel settembre scorso ha rivelato l’esistenza di crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi non solo dal governo israeliano, ma moralmente imputabili anche a quanti, in Italia e in Occidente, hanno dato “copertura” ai criminali, è in atto una nuova campagna diversiva delle pubbliche opinioni. Mi considero una vittima di una simile campagna, avendo, io, inteso denunciare, fin dall’inizio, il genocidio in atto, ed al tempo stesso, rivendicare la piena libertà di pensiero di quanti osano criticare le “verità” mediatiche.

* * *

Un dato interessante che emerge dall’intervista al parroco cattolico palestinese è la piena legittimazione del governo di Hamas, laddove noi siamo ogni giorno tempestati da un’immagine demonizzata di un governo che mai ha avuto elezione più regolare e democratica: terroristi, terroristi, terroristi! Come a dire che un parola coniata in una stanza del potere fra pochi personaggi debba valere come Verbo di Verità per tutto il resto del mondo. Anche pochi giorni fa, in un’intervista alla televisione danese, si è potuto vedere l’ennesimo spot di un ministro israeliano che inveisce all’infinito contro Hamas come ostacolo alla pace. Norman G. Finkelstein ha avuto facile a rispondere all’intervistatore danese che Hamas esiste da pochi anni, e che Israele aveva avuto tutto il tempo per cercare la pace, se la pace davvero voleva. In realtà, sappiamo che Israele non ha mai voluto la pace. Ha sempre soltanto voluto il completamento della pulizia etnica avviata nel 1948, secondo un progetto che risale agli inizi dell’impresa sionista.

A capire una verità alquanto semplice è di ostacolo solo una propaganda martellante che si avvale di una rete capillare di redazioni e televisioni d’Europa e d’America. Le parole del parroco squarciano le tenebre della menzogna mediatica. Peraltro, il parroco si dice appartenente ad al Fatah, non ad Hamas, ma riconosce piena legittimità ad Hamas. La figura morale del parroco appare a prova di fango, cioè su di lui non è possibile gettare del fango: chi ci provasse appena, si ritroverebbe lo stesso fango di ritorno, cresciuto di interessi. Non voglio qui riportare i brani del libro riguardanti Hamas. Ne consiglio vivamente la lettura. Tornano qui di attualità le critiche al sionismo condotta da un certo giudaismo che si richiama ad una più stretta ortodossia religiosa. Vale a dire la violenza immane di “Piombo Fuso” non può trovare nessuna giustificazione ed un macigno, un crimine orrendo che ricade su tutto il mondo ebraico, che non ha saputo dissociarsi nella sua interezza.


venerdì 27 novembre 2009

Ilan Pappe: «Lettera aperta al sindaco di Monaco di Baviera» – Mio commento in margine ad un annunciato convegno sul sionismo. Il “mostro” risponde…

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La Lettera aperta dello storico israeliano Ilan Pappe al sindaco di Monaco credo abbia bisogno di un adeguato commento. L’originale tedesco, da cui traduco, è preso dal sito tedesco Linke Zeitung. Come primo commento, mi limito ad osservare che il «divieto di parola» inflitto all’ebreo Pappe a Monaco non è stato il solo in cui gli hanno negato la «libertà di esprimersi». Nel Gennaio del 2009, infatti, all’Università di Roma, lo scenario non fu molto diverso. Anche se, nel caso specifico, non fu possibile accertare, né quali fossero stati gli effettivi “sponsors” (rimasti “coraggiosamente” nell’ombra…), né i reali motivi del diniego di «libertà di parola» che fu comminato ed imposto a Pappe, nel contesto di una sede universitaria, la «più grande Università d’Europa».

A mio avviso, il popolo palestinese è vittima di un vero e proprio genocidio. Un genocidio, se vogliamo, che si distingue da altri, poiché non è istantaneo, né limitato e circoscritto ad un preciso periodo storico, ma si prolunga e continua, nel tempo, ad iniziare, per lo meno, dal 1948: cioè, dalla «pulizia etnica» voluta da Israele a discapito dei Palestinesi e descritta dal medesimo Ilan Pappe. Secondo me, questo «olocausto» (ossia, il sacrificio religioso di una vittima, offerto ad un dio) ha un nome: è la Nakba (la «catastrofe»), è 61 anni di soprusi e di studiate angherie contro un popolo indifeso, è l’operazione «Piombo Fuso» (per non citare che l’ultima!), è la morte quotidiana per fame, malattie e stenti di un milione e mezzo di persone rinchiuse nel lager di Gaza. Senza contare i milioni di Palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme-Est.

Le spiegazioni di ciò che è accaduto ed accade in Palestina vanno ricercate nelle condizioni della nostra cultura politica, dal 1945 ad oggi. Il vero fondatore dello Stato di Israele, fu Stalin. A lui, e non all’ONU, si deve il concetto e la pratica della «spartizione della Palestina». In un certo senso, si può perfino dire che il sionismo è stato, ed è, un prodotto del comunismo. In fondo, l’attuale «Barriera difensiva» israeliana è l’equivalente del «Muro di Berlino», fortunatamente abbattuto nel 1989. Dalla Russia comunista sono venuti i principali massacratori del popolo palestinese. Ed è di origine russa, la composizione «etnica» della maggior parte dell’odierna popolazione israeliana. I dati parlano da soli. E’ sufficiente consultarli.

Queste brevi e schematiche riflessioni sono il mio modesto contributo alle due giornate sul sionismo che sono state indette a Roma per il 28 e 29 Novembre 2009, sotto l’egida del «Forum Palestina». Un «Forum» (sic!) che mi ha addirittura negato la semplice partecipazione, come spettatore! Non, quindi, la facoltà di parlare – nulla avrei avuto da dire di fronte a tanti relatori sicuramente più “esperti” di me, nella materia – ma unicamente quella di potere ascoltare ciò che altri avrebbero detto su questo tema. Sembra incredibile, ma – se riflettiamo – è peggio di quanto è successo in Monaco a Ilan Pappe che venni ad ascoltare, a Gennaio di quest’anno, a Roma, all’interno della medesima sede congressuale. Lungi da me immaginare che un “Forum Palestina” fosse direttamente o indirettamente sinonimo di “Forum Comunista”... Così stando le cose, la sorte del popolo palestinese sembra essere tristemente segnata… Il suo destino, però, è stato deciso qui da noi, in Italia, in Europa. A mio avviso, infatti, solo l’abbattimento di tutti i pregiudizi e di tutti i «muri» ideologici, potrebbe essere una residua speranza di poter recare un reale aiuto ai Palestinesi: molto più di ogni raccolta di medicinali, di attrezzature, di scorte alimentari.

CIVIUM LIBERTAS

* * *

Molto Egregio Signor Sindaco,

sono scosso e offeso per la sua decisione di impedire la mia comparsa, organizzata dal gruppo SALAM/SHALOM, dal 23 al 25 ottobre 2009, nell’Istituto pedagogico della Sezione scolastica e culturale di Monaco, Capoluogo del Land.

Mio padre, in quanto ebreo tedesco, fu messo a tacere in modo simile negli anni trenta ed è triste essere testimone del ritorno di un’eguale censura nell’anno 2009. Come oggi accade a me, anche mio padre e i suoi amici furono visti come ebrei “umanisti” e “orientati alla pace”, la cui voce doveva essere soffocata e repressa.

Io ho una posizione dirigente in una delle più prestigiose università della Gran Bretagna come professore di scienze storiche.

Sono stato invitato [dal Gruppo pacifista di Monaco] non solo come storico professionista, ma anche come attivista della pace. In nessun altro luogo d’Europa, in nessun altro luogo in tutto il mondo, ho fatto esperienza di un simile atteggiamento repressivo ed di una simile prontezza alla repressione di fronte all’intimidazione di poche persone, che pretendono di essere rappresentanti dell’esperienza e della catastrofe ebraica. Se mai si è abusato del ricordo della mia famiglia e di molti altri ebrei, ciò è stato quando non si è permesso a me quale discendente diretto di parlare liberamente in Germania. Più che della mia personale libertà di parola, che a me – come ho detto – è garantita generosamente e ovviamente ovunque in Europa, sono preoccupato – come ogni uomo onesto dovrebbe essere – della situazione della libertà di parola e della democrazia nella Germania attuale.

Sono certo che la città di Monaco si renderà conto che questo provvedimento censorio è stato un grave errore, al quale si può tuttavia porre rimedio, invitandomi nuovamente nell’Istituto.

Con osservanza
Prof. Ilan Pappe

martedì 24 novembre 2009

Ernst Nolte: «Un giorno sorprendente a Trieste, il 9 novembre 2009» - La risposta di Nolte ai suoi “contestatori”.

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Di seguito il Lettore di “Civium Libertas” trova la testimonianza di Ernst Nolte, principale protagonista della giornata triestina di Palazzo Revoltella. Nolte, che vive a Berlino, era stato chiamato a commemorare il ventennale della caduta del Muro. Nessuno meglio di lui avrebbe potuto parlare sul tema ed è quindi stata felice la scelta degli organizzatori della manifestazione. Resta inspiegabile l’intolleranza dei “contestatori”, per i quali forse il Muro non è mai caduto o che forse lo avrebbero ancora voluto conservare intatto. A loro conforto restano però numerosi i Muri che non sono per nulla crollati. Il testo di Nolte, inedito, è qui dato nella traduzione italiana di Francesco Coppellotti e nell’originale tedesco, a beneficio dei Lettori tedeschi di questo blog. Appena disponibile, contiamo di dare anche la traduzione di tutta la conferenza di Nolte.

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ERNT NOLTE

Trieste, 9 novembre 2009
Un giorno sorprendente

L’assessore alla cultura della città di Trieste mi aveva invitato per la sera del 9 novembre 2009 ad aprire le celebrazioni dedicate ai vent’anni della caduta del muro di Berlino con un discorso nella Sala Revoltella intitolato “I presupposti storici della costruzione e della caduta del muro”.

L’8 novembre, giorno del mio arrivo, il “Piccolo”, il giornale locale, pubblicò un’intervista con me su questo tema che avevo dato da Berlino. Era ben presentata ed aveva il titolo triviale: “Con la caduta del muro di Berlino sono i comunisti che hanno subito una sconfitta.” Nelle pagine interne del giornale si poteva però leggere un articolo intitolato: “I giovani democratici: una propaganda di bassa lega. Racovelli (Verdi): il Comune ha invitato un revisionista.” Il suo unico argomento consisteva nel rilevare che Nolte aveva interpretato il nazismo come “risposta al bolscevismo”. Il membro del consiglio comunale non dava però alcun peso al fatto che una “risposta” (o, come dicevano tutti gli autori comunisti degli anni venti e trenta, la “reazione”) potrebbe essere intesa come sproporzionata o inadeguata. Nell’articolo comunque veniva annunciato per la serata un “sit-in” davanti alla “casa della cultura”.

Quando arrivai la Sala continuò a riempirsi molto al di là del numero di posti disponibili. Si vedeva facilmente che la maggior parte dei giovani non era venuta per ascoltare e poi discutere sul contenuto della conferenza. In effetti alle 18 e un quarto, quando l’assessore alla cultura aveva appena incominciato con la sua introduzione, scoppiò un frastuono indescrivibile senza che avessi potuto dire anche una sola parola. Tra le parole articolate chiaramente si percepiva soprattutto il grido “Vergogna”. Frattanto dopo un momento più lungo di sorpresa si alzò anche una gran parte di coloro che erano venuti per ascoltare, che a loro volta gridarono a gran voce: “E’ una vergogna! Uscite dalla sala!” All’incirca dopo un quarto d’ora gli intrusi, spintonati dalla polizia, avevano abbandonato la sala ed io potei cominciare la mia conferenza che finì un’ora dopo tra i forti applausi dei presenti che occupavano ancora completamente tutti i posti a sedere.

Non so se i protestari avessero mai pensato seriamente a quel che è un “revisionista” e se la “caduta del muro” non costituisce una potente testimonianza per un revisionismo pratico, cioè per le vicissitudini impreviste della storia che si discostano dalle supposizioni abituali e chi aveva letto qualche pagina dei miei libri, le cui traduzioni sono molto diffuse in Italia, doveva sapere che sono ben lontano da un revisionismo “politico”, poiché attribuisco allo storico in quanto tale la disponibilità alla revisione permanente dei dati di fatto e delle interpretazioni, che non si concilia con la volontà di mantenere un’immagine della storia dogmatica e immutabile. Evidentemente quei giovani uomini e quelle giovani donne “democratici” erano però degli “assolutisti” dogmatici che volevano negare e screditare il “relativismo” (o meglio: il “relazionismo”) caratteristico e ovvio per la “democrazia occidentale” proprio nel momento della celebrazione del suo (forse soltanto temporaneo) trionfo sul pensiero “totalitario”. In questo senso il piccolo episodio, a quanto pare isolato di Trieste, può dar molto da pensare a tutti coloro che credevano di poter celebrare contenti la caduta del muro.


TRIEST 9.November 2009
Ein überraschender Tag.

Für den Abend des 9 November 2009 war ich von der Stadt Triest durch den Assessor für die Kultur eingeladen worden, die dem Fall der Berliner Mauer vor zwanzig Jahren gewidmeten Feierlichkeiten mit einer Rede in der Sala Revoltella unter dem Titel “Die historischen Voraussetzungen der Errichtung und des Falls der Mauer” zu eröffnen.

Am Tag meines Eintreffens, dem 8 November, publizierte die lokale Zeitung, der “Piccolo”, ein Interview mit mir über dieses Thema, das ich von Berlin aus gegeben hatte. Es war gut dargeboten und hatte die triviale Überschrift erhalten: “Es sind die Kommunisten, die durch den Fall der Mauer eine Niederlage erlitten haben.” Im Inneren der Zeitung war aber ein Artikel zu lesen, der in der Überschrift sagte: “Die demokratische Jugend: eine Propaganda niedriger Art. Racovelli (die Grünen): die Gemeinde hat eine Revisionisten eingeladen.” Dessen einziges Argument bestand in der Feststellung, Nolte habe den Nazismus als “Antwort auf den Bolschewismus” interpretiert. Dafür, das eine “Antwort”(oder, wie alle kommunistischen Autoren der zwanziger und dreißiger Jahre sagten, “die Reaktion”) als über-proportional oder als inadäquat verstanden werden könnte, legte das Mitglied des Stadtrats kein Verständnis an den Tag. Jedenfalls wurde in dem Artikel für den Abend ein “sit in” vor dem “Haus der Kultur” angekündigt.

Als ich eintraf, füllte sich der Saal immer mehr, weit über die Anzahl der vorhandenen Sitze hinaus. Man sah leicht, dass der größere Teil der Jugendlichen nicht gekommen war, um zuzuhören und dann über den Inhalt des Vortrags zu diskutieren. In der Tat brach um 18,15 Uhr, als der Assessor für Kultur gerade mit seiner Einführung begonnen hatte, ein unbeschreiblicher Lärm los, ohne dass ich auch nur ein einziges Wort hätte sagen können. An klar artikulierten Wörtern war am ehesten der Ruf “Schande” zu vernehmen. Nach einem längerem Augenblick der Überraschung erhob sich indessen auch ein großer Teil derer, die zum Zweck des Hörens gekommen waren, und diese riefen ihrerseits mit großer Lautstärke: “Unverschämtheit! Verlasst sofort den Saal!” Nach etwa einer Viertelstunde hatten die Eindringlinge , von der Polizei gedrängt, den Saal verlassen, und ich konnte mit meinem Vortrag beginnen, der eine Stunde später unter starkem Beifall der Anwesenden, welche die Sitzplätze des Saales noch vollständig füllten, zu Ende ging.

Ob die Protestler sich jemals ernsthafte Gedanken darüber gemacht hatten, was ein “revisionista” ist und ob nicht der “Fall der Mauer” ein machtvolles Zeugnis für einen praktischen Revisionismus darstellt, nämlich für die unvorhergesehenen, von den üblichen Annahmen abweichenden Wechselfälle der Geschichte, weiß ich nicht, und wer ein paar Seiten und wer ein paar Seiten meine Bücher gelesen hatte, deren Übersetzungen in Italien weit verbreitet sind, der musste wissen, dass ich von einem “politischen” Revisionismus weit entfernt bin, weil ich dem Historiker als solchem die Bereitschaft zu permanenter Revision von Tatbeständen und Interpretationen zuschreibe, die mit dem Willen zur Aufrechterhaltung eines dogmatischen und unveränderbaren Geschichtsbildes nicht vereinbar ist. Offenbar aber waren jene jungen “demokratischen” Männer und Frauen als dogmatischen “Absolutisten” zu bezeichnen, die für die “westliche Demokratie” kennzeichnenden und selbstverständlichen “Relativismus” (oder besser: “Relationismus”) gerade im Augenblick der Feier seines (vielleicht nur temporären) Sieges über das “totalitären” Denken verneinen und herabsetzen wollten. Insofern mag das kleine allem Anschein nach isolierte Ereignis in Triest all denjenigen viel Stoff zum Nachdenken geben, die fröhlichen Mutes den Fall der Mauer feiern zu dürfen glaubten.

sabato 21 novembre 2009

Ilan Pappe “silenziato” in Germania, a Monaco di Baviera. – Il “mostro” risponde…

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Vedi anche qui, dove appare un incredibile risvolto italiano.

Vers. 1.1 del 22.11.09

“Occhio alle date!”, soleva dire un anziano collega della mia università, ora in pensione. La prima cosa – diceva – che si deve leggere in un libro è la data, l’anno in cui è stato scritto. Si parlava ancora di anni di stampa, per la verità, e non ancora della data di articoli apparsi su giornali e di notizie che vengono o non vengono circuitate nei grandi media. Qui la data è quella del 12 novembre 2009, quando esce un articolo in lingua inglese ora tradotto in italiano, ma relativo ad un evento del 23-25 ottobre scorso, che avrebbe dovuto svoltersi in Monaco di Baviera, in una sala del Comune poi improvvissamente negata a seguito di pressioni esercitate sul sindaco da parte di un’associazione ebraica locale.

La conferenza era sul tema “Israele - Mito e realtà” e avrebbe dovuto tenersi il 24 ottobre: una impressionante prossimità di date con l’attacco a me rivolto il 22 ottobre su “Repubblica”. Si noti bene che in lingua tedesca, ma anche italiana, la parola “mito” è spesso usata come un sinonimo di “leggenda”, termine che io avevo usato circa tre anni fa e su cui la solita “Informazione Corretta” aveva già imbastito un attacco nei miei confronti. Pensavo di aver già allora chiarito a sufficienza il mio pensiero al riguardo. Ma il giornalista Pasqua ha preferito attingere a piene mani nell’archivio della testata di stretta osservanza sionista, chiaramente legata al governo israeliano. È difficile perciò non pensare ad un’orchestrazione di stampa a livello nazionale ed europeo, finalizzata ad interventi legislativi, secondo uno scenario già visto e collaudato altre volte.

Anche sulla stampa tedesca se ne è saputo qualcosa solo a seguito di una lettera aperta dello stesso Ilan Pappe al sindaco Christian Ude, apparsa su Linke Zeitung del 12 novembre. L’incontro era stato patrocinato da un gruppo per il dialogo palestinese-israeliano. Pappe si è quindi dichiarato fortemente preoccupato per la libertà di pensiero in Germania, dove è minimo il rispetto e la garanzia di questo diritto. Purtroppo il suo modello viene proposto per l’Europa intera. È da osservare che i pochi organi di stampa tedeschi che hanno riportata la notizia danno prova essi stessi di non poca viltà dichiarando “controverse” le tesi documentatissime di Pappe, contenute nel suo libro sulla “Pulizia etnica della Palestina”. Curiosamente, il termine “controverso” non lo si ammette per quelle migliaia di persone che in Germania vengono mandate in galera ogni anno per tesi che non si possono neppure discutere! E solo per questo non sono controverse. “Un’offerta che non si può rifiutare” – si diceva nella nota fiction Il Padrino – e per analogia “Una verità di Stato che non può essere discussa”. Ma ove fossero pure “controverse” le sue tesi Ilan Pappe sarebbe stato ben disponibile e lieto di poterne discutere in contradditorio con un rappresentante mandato dall’ambasciata israeliana in Germania. Se ne sono ben guardati dal misurarsi in un dibattito!

È da dire che l’incontro si è comunque tenuto in altra sede. In pratica, si è impedito l’uso di una sede istituzionale, come poteva essere una sala del comune di Monaco. Non è la prima volta che ciò accade e potrei stilare un elenco di casi a mia conoscenza. Per contro, l’uso di una sede istituzionale non è negata per eventi di segno opposto, a sostegno di un’altra contrapposta tesi. Come anche questo nuovo caso monacense dimostra, è indubbio che non solo a livello italiano, ma in ogni paese d’Europa vi è la presenza attiva, solerte e discreta di una Israel lobby, che però non ama essere individuata e riconosciuta come tale. Si grida al “complottismo” e all’«antisemitismo» per il semplice fatto che si individuano i soggetti e le associazioni che negano ad una parte di cittadini l’uso degli spazi pubblici ed istituzionali per manifestazioni non violente, assolutamente legittime e l’esercizio di diritti costituzionali riconosciuti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dalla stessa Carta europea.

È da valutare se il cambiamento di sede della manifestazione monacense, inizialmente prevista in una sala comunale, debba essere considerato un successo o un insuccesso. Se debba poi essere considerata una “vittoria” il fatto che comunque la manifestazione si sia svolta, o invece una “sconfitta” il fatto che non abbia avuto luogo nella sede istituzionale prevista. Non saprei dire. Mi sembra però che le istituzioni municipali abbiano subito una sorta di delegittimazione nella misura in cui si sono rese responsabili di un’evidente discriminazione. Ed al tempo stesso chi ha spinto in tal senso, chi ha esercitato indebite pressioni non abbia migliorato la propria immagine di fronte a quanti possono ragionevolmente dirsi terzi e al di sopra di ogni sospetto di “antisemitismo”, un’accusa ormai fin troppo strumentale e priva di senso, un’arma nuova usata per coprire crimini antichi che non cambiano la loro natura per il semplice fatto di venire mutati di nome e rivestiti di panni fittizi e posticci. Il recente rapporto Goldstone traccia una linea di continuità fra la pulizia etnica del 1948, descritta nel libro di Pappe, e l’operazione «Piombo Fuso del dicembre-gennaio 2009. La potente macchina della propaganda israeliana si è lanciata all’attacco di Goldstone e di Pappe, ma anche di quanti – come il sottoscritto – vi sono in qualche misura collegati.

Che fare? Come reagire? La Verità è la nostra arma principale. La nostra forza è il poterla gridare e di non tradirla accettando la Menzogna. Sui nostri giornali la notizia monacense, non la si trova. Questo tecnica si chiama manipolazione. Devono evitarsi le notizie che possono suscitare dibattito, contradditorio e riflessione. Ma di cosa precisamente si tratta? Non ripubblico con un copia ed incolla la notizia, per la quale rinvio all’apposito link di chi l’ha utilmente tradotta, traendola da un articolo inglese di Sarah Stricker del 12 novembre 2009. Io qui voglio provare a ragionarci sopra. Pochi sanno che Ilan Pappe avrebbe dovuto parlare anche all’Università di Roma La Sapienza nello scorso gennaio di questo corrente anno 2009. Venne negata la sala all’ultimo momento ed il convegno si spostò in una sala d’albergo, con notevoli costi e dimezzando il numero dei convegnisti che si erano iscritti. La data mi pare fosse il 20 di gennaio, a pochi giorni dalla conclusione dell’operazione “Piombo Fuso”. Mai un convegno scientifico fu più tempestivo. Vennero date spiegazioni alle quale nessuno credette ed alla luce di quanto successo a Monaco non è difficile immaginare quali interventi vi siano stati.

Nell’articolo di Sarah Stricker si parla espressamente di una «lettera proveniente dall’Associazione israeliano-tedesca di Monaco» che avrebbe indotto il comune di Monaco ad annullare l’evento. È qui da notare che Associazioni simili esistono in ogni paese, in ogni luogo dove vi siano comunità ebraiche ed esercitano un’indubbia influenza. Ma costoro poi si infuriano e lanciano la solita accusa di “antisemitismo” se poi salta agli occhi di ognuno l’esistenza di una vera e propria «Israel lobby», trasversale e capillare. In America i due politologi Mearheimer e Walt hanno evidenziato e descritto il fenomeno in un ampio volume, tradotto tempestivamente in tutte le lingue. Il fenomeno esiste anche da noi, direi più corposamente e gravemente. Di recente è stato denunciato anche in Gran Bretagna, da un giornalista immediatamente messo sotto tiro. Sarebbe utile per una migliore intelligenza poter disporre anche di una traduzione italiana di questi importanti documenti sulla situazione inglese.

In Germania sembra qualcuno abbia trovato la forza di reagire. Assai opportunamente Ilan Pappe ha scritto al sindaco che gli ha negato l’uso della sala del Comune, dicendo che «negli anni ’30 mio padre, un ebreo tedesco, venne silenziato in modo analogo, e sono rattristrato dallo scoprire la stessa censura nel 2009». È da osservare che il sindaco di Monaco aveva prima concesso l’uso della sala comunale. Poi è intervenuto qualcuno ed il sindaco ha disdetto ciò che prima aveva concesso: chi comanda a Monaco?

È confortante leggere che «i partiti di sinistra tedeschi, i verdi e l’associazione ATTACC» si siano schierati a difesa di Pappe ed abbiano perfino definito «un atto di codardia politica» la condotta del sindaco monacense. In effetti, è così. Regna in tutta Europa un regime di autentico terrore. Era questa l’Europa che sognavamo? Una Germania dove ogni anno 15.000 tedeschi vengono penalmente perseguiti per reati di opinione! E così in Francia, Svizzera, Austria. Così si vorrrebbe pure in Italia e nell’Europa di Lisbona. Basandosi sul numero annuo di 15.000, persone incriminate nella sola Germania, moltiplicato per i 27 stati dell’Unione, non è difficile ricavare un numero di milioni di persone nell’arco di una generazione che saranno ospiti delle nuove galere europee. Questa l’Europa che volevamo? Una beffa atroce! Ho cercato di dirlo e spiegarlo. Spero che ha a cuore le libertà mi ascolti e capisca che si tratta di questo. Non delle «pasquinate leggendarie» di Repubblica, un organo di stampa che non pensa di dover fare informazione, ma ha la sua politica e pensa di poter far cadere i governi in carica. Non è casuale che buona parte dei membri del ceto politico provengano dal giornalismo. Anche Marrazzo veniva dal giornalismo televisivo, se ben ricordo.

Dunque, qualche reazione sembra esservi stata in Germania. A Roma, nel gennaio 2009, al seminario sulla guerra israelo-palestinese, prese per primo la parola Angelo d’Orsi, il quale doveva subito partire per partecipare ad altro convegno nello stesso giorno. In quell’occasione d’Orsi parlò di “tradimento dei chierici”, lamentando il silenzio degli intellettuali su quanto accadeva in Gaza. Ebbe a definire il ruolo della stampa non più semplicemente come strumento della propaganda, ma essa stessa come parte attiva della guerra in corso. Proprio pensando al discorso che d’Orsi tenne a gennaio in Roma mi chiedo se gli intellettuali italiani, i “chierici”, non continuino a “tradire”. Non mi è parso di sentire la loro voce, unita in coro, per i fatti di Roma, Trieste, Torino, Londra, Monaco. Ma forse mi sbaglio e probabilmente la notizia mi è sfuggita, giacchè non leggo i giornali che escono nelle edicole e provo sempre più insofferenza per i programmi televisivi. Se fossi solo in casa, avrei già consegnato alla discarica il mio televisore.


venerdì 20 novembre 2009

Il principio “repubblicano” di presunta colpevolezza. – Il “mostro” risponde…

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La mia memoria corre ad anni lontani, quando ero studente di Aldo Moro ed il suo assistente ci intratteneva sul principio della presunzione di innocenza dell’imputato, fino a sentenza definitiva passata in giudicato. Ricordo che si discettava se la presunzione di innocenza non si dovesse più rigorosamente concepire come presunzione di non colpevolezza. Altrimenti, le indagini su un imputato non avrebbero potute neppure venire iniziate, qualora si fosse dovuto presumere che era già innocente. Credo che, sensatamente, la presunzione sia da intendere come un giusto principio di salvaguardia della dignità della persona, del suo onore, della sua incolumità, fino a quando una “giusta" pena non possa venire comminata. Non è comunque il nostro caso, né in un senso né nell’altro, quando si ha che fare con un quotidiano, come “Repubblica”. Per certi suoi giornalisti, infatti, sembra valere una considerazione opposta: la presunzione di colpevolezza, fino a sentenza definitiva e, qualche volta, pure oltre. Non sto esagerando e cerco di dimostrarlo.

È di qualche giorno la notizia apparsa sul sito on-line della redazione torinese de “La Repubblica”, a firma di Lorenzo Pleuteri.
Annullata la punizione al prof negazionista.

Ha vinto il primo round legale, Renato Pallavidini, il docente di storia e filosofia che aveva espresso in aula posizioni negazioniste e filopalestinesi durtante il giorno della memoria di due anni fa. L'insegnante fu sospeso per 14 giorni e condannato al pagamento delle spese processuali.
di Lorenzo Pleuteri
(20 novembre 2009)
Proviamo, ora, ad analizzare e commentare. Intanto, non esiste nel Codice penale vigente – ch’io sappia – uno specifico titolo di reato, chiamato “negazionismo”. E mi auguro che ad una simile barbarie mai si giunga. Allibisco, poi, all’idea che possa costituire una qualsiasi materia di criminalizzazione e di incriminazione penale il fatto di interessarsi di storia; oppure, di essere filopalestinesi, anziché filoisraeliani o filoesquimesi. Ma anche ipotizzando che simili reati possano esistere, oltre a dover fare valere la presunzione di innocenza per chiunque, ci si dovrebbe attenere, a maggior ragione, ad una sentenza di primo grado che quell’innocenza proclama, in nome e per conto del popolo italiano.

Ed invece no! Qui si tenta di irridere o schernire la sentenza di primo grado. Si continua, nella titolazione, a bollare come “negazionista” il docente torinese Pallavidini. E si tenta altresì di “eccitare” i lettori, per il secondo round: cioè, il possibile Appello. Ma come fa Pleuteri a sapere già che vi sarà un Appello? Dove ha attinto l’eventuale informazione? Forse è lui stesso, considerandosi “parte in causa”, che intenderebbe proporre l’Appello per nome e per conto di “Repubblica”, dove egli scrive?

Insomma, anche la peggiore barbarie, a confronto, allibirebbe! Torino è una città nella quale le cronache locali di testate nazionali, sembrano preferibilmente occuparsi di ciò che un docente di Liceo dice o non dice a lezione. È una città, dove un docente si ritrova ad essere costretto a circolare con la scorta della polizia, per poter semplicemente andare in aula, a tenere le sue lezioni. Questo paese, non è l’Iraq o l’Afghanistan del dopo Bush jr. E’ l’Italia: un Paese che molti, ormai, nel migliore dei casi, tendono a paragonare ad una “Repubblica delle banale”. Forse peggio. Vi è poco da commentare… Diciamo che cascano le braccia!

La notiziola apparsa sul web non è sfuggita al diretto interessato, che dopo due commenti coperti dall’anonimato, ha pensato di lasciare questo suo commento chiarificatore:
“Visto che l'interessato dell'accusa e della sentenza sono io, mi sembrano doverose due precisazioni (che mi sembrava, però, di aver già dato ai vostri giornalisti sin dal febbraio 2007!). Io non sono negazionista, non mi sono mai interessato al problema; Né in classe ho espresso queste tanto deprecate tesi negazioniste. Ho duramente stigmatizzato la politica israeliana in Medio Oriente, come facevano normalmente in tanti, Repubblica compresa, prima che le lobbyes sioniste, prima che il sionismo giungesse a questi livelli di potere. Credo anche di aver impressionato favorevolmente la giudice, affermando che nella mia fornitissima biblioteca privata, su circa 3600 volumi di storia, filosofia, ecc. esistevano solo due minuscoli testi negazionisti, giusto per farmene un'idea come insegnante e studioso di storia. Quindi, per cortesia, correggete il testo! datemi del rivoluzionario, del pazzo sostenitore di Ahmadinejd, ma non del negazionista perché non lo sono!”.
Renato Pallavidini
Certamente opportune, ma inadeguate – rispetto alla “potenza di fuoco mediatico” di cui dispone una testata come “Repubblica” – le ordinarie capacità di reazione di un comune cittadino che può venirsi a trovare diffamato e criminalizzato, a discrezione dei “padroni del vapore”. Nessuno dovrebbe trovarsi nella condizione di dover respingere accuse assurde.

Non possiamo non collegare, anche questo episodio, all’interno di una strategia che da anni si persegue, ed il cui obiettivo è l’instaurazione di un regime di terrore, per ogni forma di pensiero che non si voglia allineare su livelli di pregiudizio sempre più bassi. Mi chiedo: quando sarà possibile una sana, lecita, non violenta reazione di fronte ad un’intimidazione di regime sempre più oscena e insopportabile?

giovedì 19 novembre 2009

«A proposito di disinformazione. Nota di Franco Cardini» – È in atto una nuova caccia alle streghe: Caracciolo, Nolte, Pallavidini, Cardini...

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Mentre mi accingevo a scrivere un post su un nuovo attacco di “Repubblica” a Pallavidini, ho ricevuto da Franco Cardini il testo che segue. Considerata la frequenza e la sistematicità di una serie di attacchi concertati e cadenzati, credo si voglia attentare alla libertà di pensiero e di ricerca con l’introduzione di una normativa alla tedesca o alla francese. Mi vado però rendendo conto come la libertà di pensiero non sia un lusso, un accessorio professionale di un ristretto gruppo di intellettuali. È il fondamento stesso di una democrazia che sia sostanza e non mera procedura. Se occorrono illustrazioni di quanto così enunciato, devo rinviarle in altro momento. Ma sarà un leit-motiv dei miei prossimi post. Anche a Cardini, come già al sottoscritto, si attribuiscono posizioni che non ci si cura minimamente di verificare alla fonte, presso chi può certamente dare l’interpretazione autentica del proprio pensiero. Che vi sia un controllo capillare della stampa mi sembra evidente. È in atto una vera e propria demonizzazione contro chiunque la pensi in modo appena un poco diverso da quella che si ritiene la Norma. Restano da conoscere i soggetti, le modalità, o collegamenti e simili. Ricerche che si possono fare a posteriori o in tempi troppo lunghi rispetto all’immediatezza degli attacchi. È dunque sufficiente l’intuito di ognuno per capire il ruolo della stampa e dei media, che hanno loro proprie finalità politiche e servono determinati referenti politici. A proposito, devo confessare la mia ignoranza. Fino a questo momento non avevo mai sentito il nome Jean Thiriart. Probabilmente, anche io verrò rubricato come un suo allievo! Di fronte a connessioni così ampie ed arbitrarie ognuno di noi puà essere associato a chiunque, da Gesù Cristo a Gengis Khan. Mi viene subito da chiedermi perché mai l’articolista anziché di Curcio o di Cardini non vada a ricostruirsi la biografia politica di personaggi che oggi si trovano ai vertici delle istituzioni nazionali e locali. Non credo so tratti di una ricerca difficile. Interessato com’è agli incontri matrimoniali durante la militanza politica, ne potrebbe scoprire delle belle.


A. C.
* * *

A PROPOSITO DI DISINFORMAZIONE
Nota di Franco Cardini, 18 novembre 2009

A tutti gli Amici e a tutti coloro che seguono il mio “sito”. Trascrivo, qui di seguito, un articolo a firma Alexandre Del Valle comparso sul quotidiano “Libero” del giorno 17.11.2009. Per quanto dal contesto di esso la cosa non sia chiarissima, si tratta a quel che pare degli estratti di un recente libro del Del Valle, noto per la sua tesi secondo la quale gli Stati Uniti d’America si servirebbero dell’Islam (presentato e trattato come una realtà omogenea e totalizzante) per compromettere e ostacolare la vita politica, culturale. civile, sociale ed economica dell’Europa. Non ho alcun contatto con il signor Del Valle, e ignoro pertanto sulla base di quale bislacca deontologia professionale egli parli di qualcuno che avrebbe potuto informarlo di prima mano sia delle proprie pubblicazioni, sia delle proprie autentiche posizioni.

Escludo pertanto, sulla base di quanto dal suo scritto rilevo, che il signor Del Valle sia intellettualmente onesto e culturalmente capace di condurre una ricerca corretta: mi chiedo d'altro canto perché il quotidiano “Libero” abbia accolto un attacco personale così virulento e diretto - suscettibile a quel che persone competenti mi suggeriscono anche di azione legale -, a meno che all’interno di quel giornale non vi sia qualcuno per qualche motivo interessato a diffamare la mia persona. Addito comunque un tale modo di far “giornalismo” al disprezzo di chiunque si appresti a esaminare questo dossier.

Il Dossier che segue è distinto, per comodità dei lettori, in 3 parti.


Dossier 1.

Il fronte comune di islamici, nazisti e compagni
CULTURA | Alexandre Del Valle
Pubblicato sul quotidiano “Libero” il giorno: 17/11/09

L’espressione «rosso-nero-verdi», da cui è stato concepito il titolo di questo libro, venne utilizzata per la prima volta da Jean Thiriart. Militante nell’estrema destra belga e nel Circolo degli Amici del Grande Reich Tedesco (AGRA) durante l’occupazione nazista del Belgio, Thiriart, all’epoca giovane rexista, era stato molto legato al movimento nazionalbolscevico filonazista del professor Kessemaier e imprigionato per collaborazionismo alla fine della guerra. All’inizio degli anni ’60 diede vita a una nebulosa internazionale neonazista e poi, dopo essersi momentaneamente opposto alla decolonizzazione, abbracciò, come la Nuova Destra, posizioni filoarabe e terzomondiste. Diventato filosovietico, Thiriart denunciò oppositori anticomunisti cristiani dell’Europa dell’Est come Lech Walesa, definendolo una «marionetta della propaganda sionista e americana». (...)

Concentrò i suoi sforzi sull’antigiudaismo e sull’alleanza con i nazionalisti arabo-musulmani alla stregua di François Genoud e del Gran Muftì di Gerusalemme. In Francia ispirò rosso-neri come Christian Bouchet, la Nuova Destra o gli intellettuali usciti da questo movimento e diventati più rispettabili, come Franco Cardini in Italia. In America Latina, influenzò il dittatore argentino Perón, il geopolitologo peronista-negazionista argentino Norberto Ceresole, e sopratutto il leader della «Rivoluzione bolivarista» Hugo Chávez. (...)

In maniera repentina, quindi, questo nostalgico del Terzo Reich diventò antimperialista, filocubano e filocinese. Un cambio di rotta che lo portò al «nazionalcomunismo» al fianco dei militanti maoisti, con i quali condivideva un antisionismo virulento e una fascinazione per l’azione rivoluzionaria diretta di tipo palestinese. L’alleanza con la Cina comunista e il mondo arabo era per lui necessaria contro il nemico principale: l’imperialismo americano-sionista. Ma l’odio viscerale nei confronti degli Stati Uniti fece nuovamente evolvere il suo movimento verso posizioni filosovietiche e filorusse, in contrapposizione all’antiatlantismo. I Cahiers du Solidarisme, anch’essi frutto del movimento Giovane Europa di Thiriart, editati dal 1976 al 1979, seguivano la stessa direzione. In un numero già citato della rivista Eléments, dedicato agli arabi, Claudio Mutti ha spiegato come l’organizzazione e la rivista Jeune Europe di Thiriart avessero motivato la sua conversione all’Islam e il suo filoarabismo terzomondista «di destra». Fu in quegli anni e seguendo quest’evoluzione che i “Solidaristi” e la Nuova Destra, influenzati da Thiriart e Jeune Europe, strinsero legami con i gruppi «euro-terroristici» di Action Directe, delle Brigate Rosse italiane - che all’epoca era considerata la più efficace struttura d’azione «antimperialista» - e delle Cellule Comuniste Combattenti (equivalenti belghe delle prime due). Un avvicinamento che ebbe conseguenze dirette quando i militanti del gruppo di Thiriart si associarono all’estrema sinistra terroristica in Italia, in particolare a Renato Curcio, che in seguito fu a capo delle Brigate Rosse.

Il camerata Renato Curcio.

Contrariamente a quanto scritto dai suoi biografi, il terrorista rosso Renato Curcio non iniziò la sua «carriera politica» a Trento nel 1967, ma diverso tempo prima ad Albenga, nell’ambito del movimento di estrema destra americanofobo e antisemita di Thiriart, Jeune Nation, che darà i natali, in Italia, a Giovane Europa, dalla quale Curcio trarrà la propria formazione. Nel n. 4 della rivista Giovane Nazione, il «camerata Renato Curcio» è citato in qualità di responsabile della sezione di Giovane Europa di Albenga. Nel n. 5 (ottobre 1963) dello stesso giornale, Curcio è lodato per il suo «zelo militante», e solo in seguito egli entrerà a far parte del movimento studentesco di estrema sinistra. È in Giovane Europa che imparerà i pregi dell’organizzazione e della centralizzazione leninista e che studierà le basi teoriche della guerra partigiana nonché il concetto di «brigata politico-militare». A partire dal 1967, Renato Curcio si farà promotore di movimenti studenteschi di estrema sinistra all’Università di Trento ed entrerà a far parte del Partito comunista italiano (Marxista-Leninista), partito rosso-nero-verde ante litteram che all’epoca collaborava con Giovane Europa e promuoveva la rivista Lavoro Politico.

È in questo periodo che Curcio conosce e sposa Margherita Cagol, la futura pasionaria delle Brigate Rosse. In seguito egli si recò a Milano, dove entrò in contatto con l’editore di estrema sinistra Giangiacomo Feltrinelli, il quale lo mise in contatto con il gruppo terrorista tedesco della Raf e con la Sinistra proletaria francese.

Così come la Jeune Europe, votata a partire dal 1966 a dare vita a una forza politico-militare destinata «ad abbattersi sull’Europa per farla finita con i collaborazionisti di Washington», anche le Brigate Rosse denunciavano la Nato come «organo di polizia degli americani in Europa». I concetti erano gli stessi. A parte Renato Curcio, l’ideologo rosso-nero-verde che meglio illustra, in Italia, la confusione «nazimaoista» è l’editore Franco Giorgio Freda, fondatore delle Edizioni di Ar, incarcerato per vent’anni per «cospirazione politica» e presunta partecipazione ad alcuni attentati che hanno insanguinato l’Italia, come la strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano.

Freda, Mutti e Blondet

Nel 1969, a Padova, Freda fu il co-organizzatore della prima grande manifestazione pro-Palestina mai avvenuta in Italia, legata ad alcuni rappresentati di al-Fatah e a dirigenti del gruppo maoista di Potere operaio. In un’intervista alla Librairie Française, Freda ha spiegato il suo cocktail ideologico in occasione della presentazione di un volume intitolato . Nel frattempo, alcuni suoi amici danno vita a sezioni dell’associazione Italia-Cina e, con Mutti, all’associazione Italia-Libia. (...) Parimenti, Claudio Mutti, formatosi nella Giovane Europa negli anni ’60, diventò «maoista» e tentò di creare una struttura «nazimaoista» in Italia attorno ai simpatizzanti della rivista Orion. Mutti teorizzava una union sacrée in questi termini: «Contro il fronte dell’insolenza democratica, dell’avidità finanziaria e della dominazione ebraica ci dovrebbe essere un fronte di estrema sinistra e di estrema destra». (...)

In Italia, l’istigatore antisemita cattolico Maurizio Luigi Blondet ha conosciuto anch’egli una popolarità trasversale rosso-nero-verde, dopo essersi specializzato nella negazione dell’11 settembre e nella tesi del «complotto giudaico-massonico» contro i musulmani e i cattolici. Blondet, giornalista e scrittore vicino all’area cattolica integralista, ex inviato speciale de Il Giornale e dell’Avvenire, dirige le edizioni Effedieffe fondate da Fabio De Fina.La maggior parte dei suoi scritti riguarda i «poteri occulti» e le «oligarchie». Blondet si occupa di un settimanale intitolato Il Cospiratore e scrive regolarmente editoriali antiebraici sul giornale integralista online Effedieffe, anch’esso pubblicato dalla casa editrice creata e diretta da Fabio De Fina che ha sede a Viterbo.

Le tesi revisioniste

Dopo l’11 settembre Maurizio Blondet si è impegnato a divulgare le tesi revisioniste di Thierry Meyssan, spiegando che gli attentati di Manhattan a opera di fondamentalisti islamici sarebbero stati il frutto di un complotto americano-sionista e massonico destinato a «distruggere la resistenza islamica» al Governo Mondiale, così com’è descritto nei Protocolli dei Savi di Sion, testo a cui fa spesso riferimento l’autore.

Blondet ritiene che, dall’11 settembre alla crisi dei subprimes, l’origine della decadenza e delle catastrofi mondiali vada ricercata nei complotti orditi dalle strutture bellico-industriali dell’Occidente, in particolare da quelle americane e dalle lobbies petrolifere e politiche giudaico-massoniche; senza dimenticare che i neoconservatori americani sarebbero alla base del «complotto dell’11 settembre». Blondet ha presentato quest’idea in numerosi suoi scritti. Alcuni mesi dopo gli attentati di Manhattan, Blondet ha sostenuto l’argomento dell’«autoaggressione» statunitense e della partecipazione dei servizi segreti israeliani alla legittimazione dell’intervento armato in Afghanistan e in Iraq.

Blondet è attivo anche nella ricerca delle «origini» ebraiche, benché antiche, dei grandi papi «cospiratori»; ha prodotto prove sull’ascendenza ebraica del defunto papa Giovanni Paolo II presentate nell’opera Cronache dell’Anticristo. La testimonianza di una nuova convergenza rosso-nero-verde è offerta dalla riformulazione di determinate tesi di Blondet da parte di alcuni esponenti dell’ultrasinistra. Fatto che risulta evidente consultando il sito No Global http://www.edoneo.org o la pagina http://smart.tin.it/rancinis/ fiamma.html, in cui si trovano gli articoli del teorico italiano dell’alleanza «catto-islamista» contro i «decadenti» e i giudeo-massoni. Le posizioni di Blondet, infatti, sono abbastanza diffuse nella destra neopagana e integralista-cattolica italiana.

Esse hanno anche registrato una certa “rispettabilità”, da quando uno dei suoi principali rappresentanti, il cattolico convinto e un tempo membro della Nuova Destra e dell’Msi Franco Cardini, si è allontanato dagli ambienti radicali per divulgare le tesi negazioniste dell’11 settembre, filoislamiste e antisioniste sulla stampa nazionale o in opere collettive quali Zero, lavoro dedicato alla negazione degli attentati di Manhattan e del Pentagono del 2001 e scritto assieme a famosi esponenti dell’antiamericanismo e del revisionismo come Thierry Meyssan.

Cardini, docente di Storia medievale a Firenze, è stato membro del movimento transnazionale Jeune Europe fondato dal belga Jean Thiriart, ha studiato la mistica fascista e il sincretismo islamico e ha preso posizione contro le guerre in Afghanistan (2001) e in Iraq (2003) aderendo alla grande manifestazione unitaria del 13 dicembre 2003 promossa dal Campo Antimperialista. È stato direttore editoriale del mensile della Fondazione Federico II di Palermo, L’Euromediterraneo, e dell’Associazione culturale Identità Europea. Come molti antimperialisti e antisionisti formatosi nella Nuova Destra, egli promuove un’immagine positiva dell’Islam nel quale identifica, seguendo il pensiero di Guénon, sia una religione «tradizionale» sia, all’interno del mondo arabo, una zona di opposizione alla cultura imperialista, mondialista e materialista dell’Occidente americanizzato. Come hanno rivelato il settimanale Tempi e l’agenzia d’informazione Corrispondenza romana, Franco Cardini è corrispondente di Radio Teheran, nella sezione ufficiale di La Voce della Repubblica islamica, cioè la radio di Stato iraniana che trasmette tutti i giorni in lingua italiana da una capitale estera. Radio Teheran esiste dal 1995, ma sta acquisendo sempre maggiore peso grazie al rinnovato protagonismo internazionale del leader Ahmadinejad. Cardini esprime spesso il suo parere sulla Palestina, l’Iraq, «l’islamofobia» o la politica italiana. Autodefinitosi «uomo d’ordine e di destra» e spesso interpellato dal Secolo d’Italia, Cardini è stranamente risparmiato dalla sinistra ed è anche stato portato a esempio dal leader del Pd Walter Veltroni per i suoi attacchi ai tagli del governo alla scuola e all’università.

Dossier 2.

Considerazioni di F.C.

Non credo che valga molto la pena di commentare uno scritto del genere. Per quanto riguarda comunque la mia attività di studioso e di pubblicista, nonché la mia bibliografia – comprese le cose che il del Valle cita o richiama fumosamente, senza peraltro, con ogni evidenza, averle consultate, rinvio ad altre parti del presente “sito”.

Segnalo comunque che l’Amico Luciano Lanna, Direttore de “Il Secolo d’Italia” – un quotidiano chiamato in causa dal Del Valle o dall’ignoto informatore che a lui l’ha segnalato -, mi ha chiesto in data 18.11. una replica all’articolo di cui sopra: l’ho inviata, ma ne trascrivo qui il testo completo dal momento che esso, un po’ troppo lungo, potrebbe venir pubblicato con qualche “taglio” per esigenze di spazio.

Dossier 3.

Replica di F.C. inviata a “Il Secolo d’Italia” in data 18.11. 2009, qui riportata in edizione originale e integrale, con l’aggiunta di alcune note.


- CHE IO SIA UNA STREGA? –

Nella nostra vita, il dolce si mischia sempre all’amaro. E magari al piccante. E’ la regola. E io non vi sfuggo.

La settimana scorsa ero vicino a Gerusalemme, nell’oasi ospitale di Nevé Shalom, l’ “Oasi di pace” dove israeliani ebrei, arabi cristiani e arabi musulmani vivono insieme, cercando di dimostrare al mondo che tutto è possibile agli uomini di buona volontà. Abbiamo ricordato insieme, con la preghiera e con un convegno di studi, la memoria di padre Michele Piccirillo, il prestigioso francescano-archeologo di recente immaturamente scomparso. Anima dell’evento è stata una mia meravigliosa amica, Simonetta Della Seta, adesso addetta culturale presso la nostra ambasciata a Tel Aviv. Con Simonetta ho scritto un romanzo storico, Il guardiano del santo Sepolcro (Milano, Mondadori, 2000), dove noi due, un’ebrea e un cattolico, c’incarichiamo di far parlare in prima persona il portinaio della basilica gerosolimitana della resurrezione, un musulmano. Peccato che i media ne abbiano parlato poco. A Nevé Shalom ho avuto la gioia di poter riabbracciare tanti stimati colleghi israeliani, come il grande medievista Benjamin Z. Kedar, amico di colui ch’è stato uno dei miei più cari maestri, Joshua Prawer, il cui splendido libro Colonialismo medievale ho avuto l’onore di tradurre in italiano (Roma, Jouvence, 1985). I miei amici ebrei, tanto italiani quanto israeliani, sanno bene che io non concordo in tutto con la politica israeliana, specie con quella di alcuni recenti governi e soprattutto con l’attuale, e segnatamente nella politica seguita nei confronti dei palestinesi e dei “territori occupati”; come sanno che io non credo molto che l’attuale modo maggioritario di presentare la società iraniana sia corretto e risponda completamente a verità. Ma discutiamo, come si fa tra amici: e gli amici non sono quelli che ti danno sempre e comunque ragione, ma quelli che ti espongono lealmente le loro ragioni e si aspettano altrettanto da te. Per il resto, essi – che mi leggono – sanno benissimo che cosa pensi di loro, della loro cultura e della loro fede abramitica, che da figlio di Abramo in quanto cattolico anch’io per tanti versi condivido. L’ho scritto a chiare lettere, introducendo la traduzione italiana del libro curato da Alain Dieckhoff, Israele. Da Mosè agli accordi di Oslo (Bari, Dedalo, 1999). Dicevo testualmente, a p.1 4:
“…Israele non è né uno strano fenomeno antropologico-religioso, né una specie di fossile storico misteriosamente sopravvissuto e riaffiorato nelle tormentate vicende degli ultimi duecento anni. Ma, semplicemente, una parte di noi e delle nostre vicende di cui non possiamo fare a meno. Una gloria del mondo”.
Non ho nulla da aggiungere e nulla da togliere a quelle parole.

La bella esperienza di Nevé Shalom si è conclusa per me venerdì scorso, a tavola, ospite fraternamente accolto da Simonetta, da suo marito – il musicologo Massimo Torrefranca – e dai loro figli Anna e Gad, per la cena di shabbat.

Fin qui il dolce. L’amaro, o meglio il “piccante” – nel senso dell’irritante –, è arrivato qualche giorno dopo, il 17 novembre scorso, con un articolo nel quale Alexandre Del Valle, forse sull’onda delle recenti dichiarazioni del ministro Maroni, “denunzia” un terribile complotto “verde-nero-rosso” ordito insieme, in spregevole combutta, da fondamentalisti islamici, nostalgici neonazisti ed estremisti bolscevichi. E naturalmente buona parte di tale articolo è dedicata a me: non ho capito tropo bene in quale delle tre convergenti categorie egli mi ponga, ma credo in entrembe (neologismo per dire in tutte e tre).

Follìa diffamatoria? Non proprio. O, perlomeno, diciamolo con l’Amleto di Shakespeare: c’è del metodo in questa follìa. Il Del Valle in realtà in parte “denunzia” cose che io sono stato il primo a dire di me stesso in molti libri (dall’autobiografia L’intellettuale disorganico alla raccolta di saggi Scheletri nell’armadio), in parte vaneggia cucendo insieme indizi allegramente interpretati e squisite falsità in uno stile che ricorda certi personaggi del romanzo di Vladimir Volkoff, Il montaggio, o certe “rivelazioni” che andavano per la maggiore nella bell’America dei tempi di Joseph Mc Carthy.

Io sarei stato quindi iscritto, da giovane, alla “Giovane Europa” di Jean Thiriart e “membro” della Nuova Destra di Marco Tarchi (che non è mai stata un movimento); avrei studiato la mistica fascista (mai!) e il sincretismo islamico (falso; non so che cosa sia il sincretismo islamico; io mi sono occupato di rapporti tra Europa e Islam) e seguirei quanto alla mia interpretazione della fede coranica le tesi di Guénon (manco per idea!). Ispirandosi inoltre alle “rivelazioni” (sic) del settimanale “Tempi” e dell’agenzia “Corrispondenza romana”, ma senza verificare le informazioni desunte (se mi avesse telefonato, gliene avrei date io di più precise…), il Del Valle prosegue sostenendo che sarei “corrispondente di Radio Teheran” (un’emittente che mi ha in effetti intervistato un paio di volte; e al quale ho risposto con cortesia, come faccio sempre con tutti e come avrei fatto anche con Radio Zagarolo…) e che avrei preso posizione contro le guerre in Afghanistan e in Iraq (verissimo e sacrosanto: ho scritto anche tre libri al riguardo). Vi risparmio le piacevolezze minori: salvo il fatto che mi definirei “uomo d’ordine e di destra” (in realtà ho sempre detto di essere uomo d’ordine e dotato di vivo senso dello stato, valori di una “destra” che non è tuttavia quella liberal-liberista) e che sarei spesso interpellato perciò da “Il secolo d’Italia” (vero: sono anzi forse il decano dei suoi collaboratori, dal momento che la mia firma su tale quotidiano è uscita per la prima volta nel 1958), ma che sarei stato “stranamente risparmiato dalla sinistra” e che una volta sono stato addirittura elogiato in pubblico da Walter Veltroni “per i suoi (cioè miei) attacchi ai tagli del governo alla scuola e all’università”. Peccato che il del Valle, forse mal consigliato e peggio documentato, “ometta” che Veltroni mi citò esplicitamente per un articolo comparso, guarda caso!, proprio su “Il Secolo”.

Che malinconia. Ho quasi settant’anni, e ho passato quasi mezzo secolo dell’esistenza studiando come un matto. Ho al mio attivo circa 150 volumi, e molte migliaia fra saggi e articoli. Ho regolarmente vinto la mia cattedra universitaria di ruolo (altro che “risparmiato dalla sinistra”!), insegnato in parecchi Atenei anche all’estero, vinto qualche premio di una certa importanza. Eppure, il quotidiano “Libero” non ha mai creduto opportuno – ed è stato suo sacrosanto diritto, che diamine! – di dedicarmi nemmeno due righe di recensione. Di recente, ho pubblicato due libri di medievistica: Cassiodoro il Grande (Jaca Book) e una raccolta di studi francescani editi dal centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo. Silenzio-stampa, almeno su quel giornale. E allora, perché d’incanto interesso in tal modo a lorsignori, affaccendati a quel che pare a impaurire la loro opinione pubblica col temibile fantasma d’un’alleanza tra “opposti estremismi” rosso-nero-verdi?

Azzarderei una risposta. In effetti, non pare che il Del Valle declini proprio tutte le sue fonti. Forse, un’occhiata al blog “Informazione corretta”, che da tempo mi dedica attenzioni analoghe alle sue – olimpicamente ignorando tutto della mia attività scientifica -, deve averla data; certo comunque qualcuno gliel’ha suggerita, o l’ha consultata per lui. O magari dev’essergli diciamo così passato per le mani il numero del 21 aprile 2004 dell’ “American National Review”, nel quale due solerti “giornalisti” (?!), per la cronaca italiani, argomentavano sul mio conto più o meno le stesse cose. Ho citato i due paltonieri in questione per diffamazione: se la sono cavata andando assolti (ma con formula dubitativa: ed è in arrivo il processo d’appello). Non so se in questo caso ricorrerò ancora alla legge. Quel che so è che in Italia sta montando un’ondata di “caccia alle streghe” nella quale chi non si preoccupa di “allinearsi”, ma cerca di dir la sua restando un uomo libero e rispettoso della verità, potrebbe anche rischiar qualcosa. Per esempio si prende di mira un galantuomo che magari non apprezza del tutto la politica estera americana o quella dell’attuale governo d’Israele e che ha sempre detto la sua a viso aperto e documentando le sue affermazioni: e, guardandosi bene dal confutarle con altrettanta lealtà, lo si denunzia come “filomusulmano” e “antisionista”, e s’insinua che possa essere in realtà antisemita, e magari criptonazicomunista. Peccato che non tutti siano disposti a lasciarsi intimidire.

Vecchi metodi. Vecchie inquisizioni. Vecchi giochi di prestigio. Che io sia una strega? In fondo, sarei anche in buona compagnia (penso alla strega Sabatilla di Brancaleone alle crociata, splendidamente interpretata da una giovane Stefania Sandrelli; o alla strega Finicella di un mediocre film peraltro piacevolmente interpretato da Renato Pozzetto, nel quale figura una giovane e mozzafiato Eleonora Giorgi ). Ma allora venite fuori una buona volta, allo scoperto, tàngheri che siete. Abbiate per una volta la forza di studiare, invece di sceglier la pigra via della calunnia; scovate per una volta il coraggio di citarmi per quel che veramente ho detto e scritto, senza interpolazioni e senza giochetti delatòri. E sia chiaro: sempre meglio comunque criptonazicomunista, come non sono io, che infami e incolti, come siete voialtri.

Franco Cardini

APPENDICE I

Segue per completezza d’informazione una scheda redatta da Claudio Mutti, citato dallo stesso Del Valle. Si tratta di una recensione del 12 ottobre 2005 al libro di A. Del Valle, La Turquie dans l’Europe, uscito nel 2004. Il testo di Mutti lo si trova nel suo sito, ma era stato anche inserito nell’area commento del blog di Alexandre Del Valle, che fa seguire una sua “replica” alla stroncatura. Per carità di patria, mi astengo dall’intervenire nel dibattito.

* * *
Recensione critica
di Claudio Mutti al libro di Alexandre del Valle,
La Turque dans l’Europe,
Paris, 2004

Alexandre Del Valle ama presentarsi come discendente di ebrei sefarditi e come marito di una donna la cui famiglia è miracolosamente scampata alla Shoah.

Da anni Alexandre Del Valle
è uno dei più influenti maîtres à penser dellestrema destra francese, in particolare di quella che agita tematiche identitarie declinandole in senso antislamico. A lui si deve la clamorosa conversione occidentalista di alcuni intellettuali dOltralpe (come ad esempio Guillaume Faye), che in passato avevano sostenuto le tesi europeiste e antiamericane di De Benoist. Levoluzione di Del Valle (e, di riflesso, dei suoi allievi) è stata sinteticamente spiegata dallo scrittore eurasiatista Christian Bouchet, che in una recente intervista ha dichiarato: «Alexandre Del Valle ha scelto in maniera chiara e netta, coerentemente col suo antislamismo idrofobo, di attestarsi su posizioni di filosionismo militante. Non invento nulla: ci si può riferire ai testi che egli ha pubblicato sul Figaro dell11 aprile 2001, nel quindicinale Le Lien Israel-Diaspora, pubblicato dagli elementi più estremisti della comunità ebraica in Francia, o sul sito internet vicino al Likud Les Amis dIsrael (www.amisraelhai.org)».

Alcuni mesi or sono, Del Valle ha pubblicato presso le parigine Editions des Syrtes un libro, La Turquie dans l
Europe. Un cheval de Troie islamiste, il cui titolo sarebbe sufficiente per confermare lidrofobia antislamica diagnosticata da Christian Bouchet.

Ma vale la pena di dare un
occhiata al libro, perché vi troveremo alcune tesi che sono circolate anche in Italia, in alcuni ambienti dellestrema destra.

Del Valle esordisce dunque enunciando la formuletta levinasiana
la Bible plus les Grecs, con la quale vorrebbe risolvere la questione dellidentità europea, indicandone come componente fondamentale lapporto greco-romano accanto alla matrice spirituale giudeo-cristiana. Ci si aspetterebbe dunque da lui una adeguata conoscenza del patrimonio culturale antico, quanto meno dellepica omerica. E invece, fin dalle prime righe di questo volume ponderoso (ponderoso, non poderoso), ci rendiamo conto che lautore non conosce neppure lIliade. O forse confonde il poema di Omero con la recente pellicola americana. Altrimenti non esordirebbe affermando testualmente: «LIliade racconta che i re micenei avevano abbandonato davanti a Troia () un gigantesco cavallo di legno (p. 15). Ed è probabilmente una qualche produzione hollywoodiana la fonte della notizia secondo cui «Europa è il nome di una dea di Tiro» (p. 16 nota); se Del Valle avesse letto lIliade (XIV, 321) o le Metamorfosi ovidiane (II, 858), saprebbe che Europa era una fanciulla mortale.

Evidentemente la specialit
à di Del Valle non è la cultura greca (nella trasmissione della quale, secondo la sua personalissima opinione, lIslam non avrebbe svolto alcun ruolo, p. 285). Ma il nostro, proprio lui che alle pp. 20-21 scaglia contro i Turchi laccusa di ignoranza della storia nonché le ancor più micidiali accuse di revisionismo e negazionismo, non ha le carte in regola neanche per quanto concerne la conoscenza della storia turca; e saranno sufficienti pochi esempi per dimostrarlo. A p. 21 Mehmed II Fatih viene collocato nel XVI secolo anziché nel XV; a p. 98 Selim III (1789-1807) e Mahmud II (1808-1839) passano per essere «due degli ultimi sultani ottomani», mentre in realtà dopo Mahmud II ce ne furono altri sette; a p. 290 mostra di ritenere che linvasione della Russia da parte dellOrda dOro sia contemporanea alla battaglia di Lepanto e allassedio di Vienna del 1629. Per chiarire lestensione delle conoscenze turcologiche di Del Valle, daltra parte, sarebbe sufficiente far notare che, secondo lui, lArmenia e la Georgia sarebbero zone turcofone (p. 22).

Con il turco, e anche con le altre lingue, il nostro non se la cava molto meglio. A p. 88 l
epiteto tradizionalmente riferito allAnticristo (arabo dajjal, turco daccal, ossia «impostore») diventa dadjal e viene reso con «apostata», mentre a p. 418 è tradotto col sintagma «re degli apostati»; a p. 90 troviamo che il nome personale Kemal («perfezione») vuol dire «il Perfetto»; a p. 102 leggiamo che «millat o millet significa nazionale’», quando invece significa «comunità»; a p. 228 apprendiamo che i Musulmani bosniaci e del Sangiaccato parlano inglese, dato che, secondo Del Valle, «tra loro si chiamano turkish [sic]». La scarsa familiarità con le lingue induce lautore a ribattezzare il Baath con lo strano nome di Baa (pp. 109 e 170) e a scambiare un mese islamico per una casa editrice (p. 97, n.11).

Ma non si tratta solo di incompetenza linguistica. La dimestichezza di Del Valle con la cultura islamica
è ai minimi termini, poiché é convinto che lummah (la comunità dei Credenti) sia un «califfato di fatto» (p. 111). Daltronde, sembra che egli non abbia mai sfogliato nemmeno una traduzione del Corano, visto che a p. 150 riesce a sbagliare perfino nel citare lincipit della Fatihah, che nella sua traduzione diventa testualmente: «Lode a Dio, Signore dei due [sic] mondi»!

Per il resto, Del Valle
è persuaso che il taoismo sia un fenomeno tipicamente giapponese (p. 286), che Nietzsche abbia elaborato la «teoria dei nuovi’» [???] (p. 222, n. 3) e che Giovanni Boccaccio sia un esponente della letteratura turcofila fiorita in Europa nei secc. XVII e XVIII (p. 182).

Su questi solidi fondamenti di cultura generale e specialistica, Del Valle costruisce la sua teoria, che pu
ò essere sintetizzata nei termini seguenti: «in base ai quattro principali criteri che consentono di definire lappartenenza allEuropa (geografico, linguistico, etnico e storico-religioso)» (p. 298), la Turchia non è Europa.

Per quanto riguarda i confini geografici dell
Europa, siccome Del Valle si richiama ripetutamente ai Greci, gli consigliamo di dare unocchiata a Erodoto, IV, 45: scoprirà che il padre della storiografia greca situava i limiti orientali dellEuropa oltre la penisola anatolica, sulle coste della Georgia. Ma Erodoto, obietterà il nostro, era un extraeuropeo anche lui, in quanto nativo della Caria Rinviamo allora Del Valle al più grande poeta dellEuropa cristiana, Dante Alighieri, che situava «lo stremo dEuropa» proprio in Anatolia (Paradiso, VI, 5). O anche Dante era, come Boccaccio, un letterato turcofilo?

Venendo al punto di vista linguistico,
è fuor di dubbio che «la lingua turca non appartiene al gruppo degli idiomi indoeuropei’» (p. 299). Ma neanche il basco appartiene alla famiglia linguistica indoeuropea, né lingue come lungherese, il finlandese, lestone, il lappone e tutti gli altri idiomi ugrofinnici parlati al di qua degli Urali. E allora? I popoli che parlano queste lingue non sono popoli europei? Viceversa, dovrebbero essere considerati europei gli abitanti delle Americhe e dellAustralia, per il semplice fatto che da qualche secolo parlano lingue dorigine indoeuropea?

Anche l
appartenenza etnica, secondo Del Valle, renderebbe i Turchi estranei allEuropa, tant’è vero, dice, che «lideologia ufficiale dello Stato kemalista turco rammenta con fierezza lorigine specifica, asiatica e turano-altaica, dei Turchi» (p. 300). Qui si potrebbe obiettare che una cosa è lideologia kemalista, ma tuttaltra cosa è la reale etnogenesi dellattuale popolazione anatolica, nella quale lelemento turco rappresenta soltanto lo strato più recente, venutosi ad aggiungere a una molteplicità di componenti etniche dorigine ariana. In ogni caso, potremmo ricordare a Del Valle che c’è in Europa unaltra etnia che rivendica unorigine turano-altaica: sono i Székely della Romania, che orgogliosamente si dichiarano discendenti degli Unni. Che ne facciamo? Li scacciamo dai Carpazi e li rimandiamo in Asia? E assieme a loro ricacciamo in Asia i Tartari della Romania, della Polonia e della Finlandia? E delle comunità turche dei Balcani, della Bessarabia, della Russia, che dobbiamo farne? E delle varie popolazioni finniche stanziate tra il Golfo di Botnia, il Baltico, la Volga e gli Urali?

L
ultimo criterio che Del Valle accampa per negare lappartenenza dei Turchi allEuropa è quello «storico-religioso». Richiamandosi al principium auctoritatis, Del Valle cita questa apodittica sentenza del suo «amico e avvocato» (p. 7) Gilles-William Goldnagel, vicepresidente dellAssociation France-Israël e dedicatario del libro: «La Turchia non ha nulla a che fare con lEuropa () e il fatto che essa sia alleata di Israele, dellEuropa o degli Stati Uniti non implica in alcun modo la sua adesione allUnione, perché lEuropa è prima di tutto un insieme di cultura giudeo-cristiana» (pp. 70-71). La Turchia, in quanto paese musulmano, è stato dunque, «fino a una data recente, il nemico principale dellEuropa» (p. 302).

Che l
affermazione di una presunta identità giudaico-cristiana dellEuropa fosse uno strumento ideologico funzionale alla «difesa dellOccidente» e alla strategia atlantista dello scontro di civiltà, per noi era chiaro da un pezzo. Così come ci era chiaro che tale strumento ideologico doveva avere, tra laltro, la funzione di allontanare la prospettiva dellingresso della Turchia nellUnione, in quanto ciò costituirebbe un ostacolo a certi disegni americani. E a confermarcelo sono proprio lavvocato Goldnagel e il suo cliente. «La Turchia in Europa scrive Del Valle significherebbe che lUnione, diventata la potenza geopolitica eurasiatica tanto temuta da tutti gli strateghi anglosassoni da Mackinder fino a Zbigniew Brzezinski, sfuggirebbe al controllo della potenza marittima americana e poi, successivamente, sarebbe in grado di rivoltarsi contro Washington» (p. 69).

In altre parole: qualora la Turchia venisse accolta nell
Unione Europea, la «coerenza geopolitica» (p. 28) dellEuropa egemonizzata dagli USA risulterebbe gravemente compromessa. È quindi necessario, se si vuole che la Turchia continui ad essere «un amico e un incontestabile alleato dellOccidente» (p. 21), tenerla rigorosamente separata dal resto dellEuropa.

Claudio Mutti

APPENDICE II

Per completezza di informazione raccolgo qui anche l’intervento di Maurizio Blondet, da Del Valle accomunato insieme a Cardini e Mutti nel suo Atlante demonologico. La mia lettura degli eventi è calata nell’attualità di questi giorni. Qui si trama qualcosa a livello legislativo e si cerca di preparare il terreno sulla stampa e nei media. Un vecchio trucco.

AC

***

Un “sayan” incapace e sfigato

Più di un lettore mi segnala un articolo apparso su “Libero” il 17 novembre 2009, a pagina 36, contenente alcune diffamazioni e calunnie contro di me. Lo vado a leggere e trovo che si tratta di “un’anticipazione del libro Verdi, Rossi e Neri di Alexandre Del Valle”. L’articolo è firmato da Alexandre Del Valle: che recensisce il proprio libro. E fa’ bene, perchè nessun altro lo recensirà. Va detto che la recensione è lusinghiera: Alexandre Del Valle consiglia caldamente il libro di Alexandre Del Valle.

Ma chi è Alexandre Del Valle? In un suo blog, scopro che egli definisce Alexandre Del Valle, “giornalista indipendente” nonchè “uno dei massimi esperti del Medio Oriente”. Parola di Alexandre Del Valle.

La veridicità delle accuse contro di me è sostenuta dalla qualità professionale di questo “giornalista”. La quale si può giudicare da questo lacerto della sua prosa:

“In Italia , l'istigatore antisemita cattolico Maurizio Luigi Blondet ha conosciuto anch'egli una popolarità trasversale rosso-nero-verde, dopo essersi specializzato nella negazione dell'11 settembre e nella tesi del "complotto giudaico-massonico"contro i musulmani e i cattolici. Blondet, giornalista e scrittore vicino all'area cattolica integralista, ex inviato speciale de Il Giornale e dell'Avvenire, dirige le Edizioni Effedieffe fondate da Fabio De Fina. (...) . Blondet si occupa di un settimanale intitolato Il Cospiratore e scrive regolarmente editoriali antiebraici sul giornale integralista online Effedieffe, anch'esso pubblicato dalla casa Effedieffe”.
Dopo l’11 settembre Maurizio Blondet si è impegnato a divulgare le tesi revisioniste di Thierry Meyssan, spiegando che gli attentati di Manhattan a opera di fondamentalisti islamici sarebbero stati il frutto di un complotto americano-sionista e massonico destinato a «distruggere la resistenza islamica» al Governo Mondiale, così com’è descritto nei Protocolli dei Savi di Sion, testo a cui fa spesso riferimento l’autore.

Blondet ritiene che, dall’11 settembre alla crisi dei subprimes, l’origine della decadenza e delle catastrofi mondiali vada ricercata nei complotti orditi dalle strutture bellico-industriali dell’Occidente, in particolare da quelle americane e dalle lobbies petrolifere e politiche giudaico-massoniche; senza dimenticare che i neoconservatori americani sarebbero alla base del «complotto dell’11 settembre».

In poche righe, Alexandre Del Valle mi assegna un nome che non ho, “Luigi” Blondet. Mi dichiara direttore di una rivista, da lui chiamata “Il Cospiratore”, che sarà anche bellissima, ma non esiste. E afferma che nei miei “editoriali” faccio spesso riferimento ai Protocolli dei Savi di Sion. Che non ho mai citato una volta in un solo mio scritto, e lo sfido a provare il contrario in tribunale.

Però, data la qualità suprema del “giornalista e massimo esperto” di nonsocosa, mi sorge un dubbio. Se Alexandre Del Valle dà un’informazione, vuol dire che è sicuro delle sue fonti, che le ha controllate e riscontrate. Magari, senza saperlo, mi chiamo davvero Maurizio Luigi. Magari ho fatto riferimento ai Protocolli. Magari dirigo davvero la nota rivista “Il Cospiratore”. Così, da modesto giornalista (un niente in confronto ad Alexandre del Valle) ho controllato. E no, l’anagrafe mi assicura che non mi chiamo Luigi. Fabio De Fina giura che non sta pubblicando a mia insaputa una rivista chiamata “Il Cospiratore”. L’archivio dei miei scritti mi rassicura: non ho mai fatto riferimento ai Protocolli dei Savi di Sion a sostegno delle mie tesi “antisemite”: bastandomi, a sostegno, riportare le atrocità, le truffe bancarie di Madof e di Goldman, le pedofilie e i traffici d’organi dei rabbini più pii, i delitti contro l’umanità e le paranoie di attualità fornite quotidianamente dagli ambienti ebraici più varii. Citando ogni volta le mie fonti.

Da ciò potete dedurre la fondatezza del resto delle “informazioni” che Alexandre Del Valle fornisce nel libro da lui recensito, opera del noto esperto Alexandre Del Valle. Resta l’enigma: dove ha ricavato le informazioni che mi riguardano? Chi gli ha detto che mi chiamo, fra l’altro, “Luigi”? Chi gli ha mostrato una copia de “Il Cospiratore”? Evidentemente ha della mia esistenza una nozione vaga e imprecisa: chi dunque lo ha assicurato che io sono non solo “antisemita”, ma “negazionista” e “revisionista”? Anzi un “istigatore”? Qualche sospetto ce l’ho, visto che Del Valle risulta un estimatore e intervistatore del “professor Roberto De Mattei”, ossia degli sfigati cattolici eretico-reazionari di Tradizione Famiglia Proprietà, attualmente stipendiati dal centro di potere che si può far risalire al kippà Gianfranco Fini.

Poi vedo che Alexandre Del Valle “collabora a Israel Magazine”, e questo spiega anche di più. Un giorno, se avrò tempo, vi ragguaglierò sulla sobria prosa e le ponderate, fondatissime informazioni di questo organo della propaganda ebtraica in Francia: per dirne una, un numero recente assicurava dell’esistenza in Francia di una potente “lobby iraniana” composta da tre persone, fra cui il comico Dieudonnè.

Questo chiarisce tutto: di tale calibro sono i “giornalisti” di cui si deve contentare “Israel Magazine”, sayanim volonterosi ma sfigati, ed ora – a quanto pare – anche lo sfigatissimo “Libero”. A cui invito i lettori a scrivere con email di plauso per questa scelta.

Naturalmente, il documentatissimo articolo di Alexandre Del Valle è stato citato integralmente, e portato ad esempio di giornalismo, da “InformazioneCorretta”, il noto sito di Pezzana. E’ una prova di più di quel che Pezzana intende per informazione “corretta”: quella nutrita, oltrechè di calunnie, di falsità inventate di sana pianta.

Abbiatevi i distinti saluti da Luigi Blondet.