giovedì 29 aprile 2010

Freschi di stampa: 41. Robert Fisk: «Il martirio di una nazione» (2010). L’immagine israeliana del palestinese.

Homepage
Precedente - Successivo
Vers. 1.0/29.4.10
1.

La superiore moralità dell’esercito israeliano

Stiamo procedendo nella lettura sequenziale del libro di Robero Fisk, Il martirio di una nazione, di cui approntiamo qui una scheda di recensione. Procedermo per nostri paragrafi a seconda di ciò che la lettura continuerà ad ispirarci. Dello stesso autore abbiamo già letto, in lettura rigorosamente sequenziale, cioè pagina dopo pagina, riga dopo riga, senza salti in diagonale, selezionando parti interessanti da leggere e poco o per nulla interessanti da poter saltare, un altro corposo volume: Cronache mediorientali. Non solo li abbiamo letti per intero questi libri, ma dovremo anche rileggerli perché è troppo vasta la massa dei dati da ricordare. Prevediamo pertanto almeno una seconda o terza lettura. Qui però in corso di lettura del «Martirio di una nazionale», vogliamo dare brevi estratti, citazioni, cui aggiungeremo un nostro necessariamente ampio commento per non incorrere in eventuali violazioni del copyright. La nostra è dunque una citazione del testo, la più striminzita possibile, e non una selezione antologica, che avrebbe bisogno di autorizzazioni che non sapremmo a chi chiedere, ma a chi può spendere i 35 euro di costo del libro ne raccomandiamo (= pubblicità commerciale gratuita) l’acquisto e soprattutto una lettura critica, seguita da discussione e dibattiti con le persone della propria cerchia privata. Rispetto alle mie personale vedute, i ambito storico e politico, Robert Fisk non è il non plus ultra, ma apprezzo la sua onesta informazione, assai rara presso i comuni giornalisti, della cui pasta del resto lo stesso Fisk ci informa, quando dice che non uscivano mai dall’albergo e chiedevano ai camerieri quelle notizie che poi noi avremmo letto sui nostri maggiori quotidiani o sentito riportare dalle televisioni.

Nella nostra lettura siamo giunti a pagine 278 su oltre ottocento di tutto il libro. Nelle pagine precedenti abbiamo appreso alcune nozioni importanti che già avremme desiderato condividere con i miei 19 lettori registrati. Provo qui a riassumere l’essenziale. Per chi segue i comunicati della propaganda israliana e sionista capita di imbattettersi in un loro pezzo “forte”, credono loro. Si tratta della vicenda del muftì di Gerusalemme, che avrebbe avuto “pericolose relazioni” con Hitler e il nazismo. Dedicheremo maggiori approfondimenti a questa vicenda che seguiamo con interesse. Qui la riassumiano per sommi e ci riserviamo di correggere in un secondo tempo eventuali imprecisioni, ovvero di fornire nomi e date, qui tratti a memoria.

Studiando la martoriata storia della Palestina ci si imbatte nella ribellione palestinese del 1936-39, che fu duramente repressa dagli inglesi. Venne allora falcidiate tutta la dirigenza politica palestinese, per cui la popolazione della pulizia etnica della palestinese nel 1948 era alla completa mercé dell’esercito israeliano, che da tempo aveva elaborato il suo piano Dalet, che prevedeva appunto l’espulsione degli abitanti originari della Palestina (Si noti: pulizia etnica = genocidio, per la cui equiparazioni si rinvia a Ilan Pappe). Un popolo, a differenza di una moltitudine (gente che passa da una stazione ferroviaria, entra o esce dallo stadio), ha bisogno dei suoi capi e delle sue elites dirigenti. La politica costante di Israele, dal 1948 in poi, ma anche prima, in pratica un disegno politico insito nel sionismo, è stata sempre di trasformare in moltitudine dispersa il popolo palestinese: il sionismo ha sempre respinto il concetto di “popolo” palestinese. Chi non capisce quanto razzismo vi sia in ciò, semplicemente non sa cosa il razzismo sia.

Ebbene, il muftì sopravvisse alla repressione della rivolta palestinese del 1936-39, ma fu dagli inglesi condannato all’esilio: non poteva ritornare in Palestina durante il mandato inglese e meno che mai quando la Palestina passò in mano sionista. Attenzione: lasciate perdere Wikipedia. È in mano sionista! Chiuso l’inciso. Che all’estero e dall’estero il mufti si adoperasse in favore del suo popolo martoriato è cosa che non dovrebbe scandalizzare una persona di buon senso. Ed invece la propaganda israeliana dà mandato ai suoi agenti di buttare sempre il pezzo del mufti nazista, visitatore di Hitler e simili. Le associazioni mentali che si intendono in questo modo suscitare sono facili da immaginare e non occorre qui illustrarle. Ma udite udite!

Leggendo appunto il libro di Robert Fisk ci si imbatte nel nome Gemayel e nelle sue “falangi”, che di rapporti con il “nazismo” ne ha avuti certamente di più sostanziali di quelli del mufti. Per andare subito al sodo: le falangi sono i sicari “nazisti” che su commissione e con la tacita intesa di Sharon e di Israel commisero il massacro di Sabra e Shatila. Ma non solo quello. La loro presenza accanto alle truppe israeliano durante e prima l’invasione israeliana del Libano nel 1982 non fu per nulla marginale. Non sviluppiamo qui il concetto, cosa che abbiamo fatto altrove, ma ai propagandisti filoisraeliani che parlano del mufti “nazista” è facile obiettare che i rapporti fra nazismo e sionismo furono eccellenti e forse ininterrotti per tutta la durata del nazismo. Quindi, a chi ti dice: mufti; puoi efficacemente rispondere Gemayel, o Sabra e Shatila.

Ancora un concetto che ho compreso grazie a Robert Fisk. Cosa erano andati a fare gli israeliani in Libano? Cosa vogliono gli israeliani non solo dal Libano, ma da tutti gli stati limitrofi? All’osso: Gemayel, il “nazista” puro e duro, fedele servitore di Israele, aspirava ad essere insediato alla presidenza del Libano con l’aiuto dell’esercito israeliano. È vero che esiste qualche vecchio documento sionista che sposta i confini di Israele fino a tutto il Libano, ma resta un obiettivo a lunga scadenza. Una fase intermedia potrebbe essere quella di un regime di personaggi quisling, come appunto un Abu Mazen, o in misura diversa un Mubarak. La politica isrealiana, che si serve degli Usa e della lobby ivi stanziata, è di spingere alla guerra potenze maggiori per poi lucrare sulla capcità di determinare la politica estera americana. In pratica, voi fate la guerra per conto nostro e noi poi passeremo a raccogliere tutti i vantaggi. Ben venga la guerra a tutti i paese del Medioriente: Iraq, Afghanistan... Iran! Poi passeremo noi e ci faremo fare, per legge, tanti bei musei... dell’Olocausto!

Ecco dunque introdotta la citazione dal libro di Fisk. Siamo al momento in cui l’esercito israliano nel 1982 è giunta a Beiruth. Fisk intervista un soldatino, di quelli con la faccio da ragazzino, ma che sparano e ammazzano ed il cui “razzismo” è solare evidenza. Chiedo scusa per la lunga prefazione, ma era per poter giustificare l’ampia citazione, qui di seguito, cui seguirà una coda di commento:
Molti degli israeliani erano ebrei sefarditi e chiacchieravano in arabo con i miliziani falangisti che scendevano dalle postazioni delle batterie posizionate sulla collina sovrastante. Alcuni ufficiali erano ashkenaziti, come quelli che avevamo visto due giorni prima. Eppure qualcosa era cambiato. Non era solo l’assenza dei musulmani in gita, e neppure l’arroganza che adesso i falangisti lasciavano trapelare nei nostri confronti davanti agli israeliani, strappandoci di mano le tessere stampa, ordinandoci di tornare a Beirut Ovest e puntandoci contro i fucili quando protestavamo. Aveva qualcosa a che vedere con il modo distratto in cui gli israeliani chiedevano loro di lasciarci in pace. L’automatica accettazione da parte degli israeliani del fatto che le Falangi - una milizia che aveva antecedenti politici tanto foschi nell’Europa degli anni trenta - avessero diritto di partecipare a questa guerra faceva paura. Non si rendevano conto che la stessa parola «Falangi» parlava di dittatura e antisemitismo europeo? Non sapevano che molti di questi miliziani falangisti consideravano i palestinesi dei subumani degni solo di essere sterminati, con esattamente gli stessi sentimenti che i nazisti avevano manifestato nei confronti degli ebrei?

Il tenente israeliano che ci si avvicinò era un giovane a cui i capelli ricci e gli occhiali con la montatura argentata davano un’aria gentile, quasi ascetica. Di primo acchito mi sembrò che stridesse decisamente con i carri armati e i camion per il trasporto truppe posizionati sulla collina sopra il campo di battaglia. I cannoni falangisti stavano sparando dalla loro postazione accanto alla chiesa maronita alla nostra sinistra, quando il soldato ci venne incontro con un tranquillo “Shalom” e si prestò spontaneamente a spiegarci con fare professorale che il pezzo d’artiglieria era un 155 mm. Sotto di noi, nella stretta piana che separava le colline dal mare e dall’aeroporto abbandonato, le granate continuavano a scoppiare sulla facoltà di Scienze, fiammate che correvano lungo il fianco dell’edificio cromato.

«Laggiù e nel campo profughi sulla destra ci sono terroristi» disse il giovane soldato, muovendo la mano genericamente in direzione di Beirut Ovest. Aveva vissuto in Francia per gran parte della sua giovinezza, ed era emigrato in Israele solo sei anni prima, per cui parlava inglese con un forte accento francese. In autunno avrebbe dovuto cominciare la sua prima sessione alla facoltà di Legge di Gerusalemme. Ma ora era un soldato, aveva combattuto, partendo dal Libano meridionale e passando per Tiro, facendosi strada fin qui, ed evidentemente sapeva che non tutti approvavano quello che aveva fatto il suo esercito negli ultimi dieci giorni. Aveva visto le rovine di Sidone.

«Immagino che non sia stato esattamente bello» disse. «Ma uno deve fare il proprio lavoro. Sapete, voi giornalisti non dovreste mai dimenticare come diventano i villaggi della Galilea dopo essere stati bombardati.» Guardammo insieme il fuoco delle granate che si abbatteva su Hadath, mentre i falangisti spostavano i loro pezzi d’artiglieria verso destra, facendo salire nuvole di fumo grigio dal limite del campo di Burj al-Barajne. Ma non pensava, gli chiedemmo, che forse la distruzione e il massacro dei giorni passati in Libano - si stimava che a quel punto fossero state uccise quasi 10mila persone - fossero in qualche modo sproporzionati rispetto a quanto accaduto nel Nord di Israele?

La sua risposta fu immediata. «Non fa differenza tra un morto e mille morti» disse. «Fanno male allo stesso modo. Vedere i bambini e le donne morti qui non è molto piacevole, ma in questa guerra sono tutti coinvolti, anche le donne, per cui non possiamo sempre punire esattamente la gente giusta, perché altrimenti ci costerebbe troppi morti fra i nostri uomini. E credo che per noi - spero possiate capirlo -la morte di un soldato israeliano sia più importante della morte di anche svariate centinaia di palestinesi. Non è una partita di calcio. Voglio dire, non è la quantità di morti che conta: è quello che stiamo cercando di fare. Io spero che in Libano ci sarà la pace, e se questo costerà molte vite, be', non c'è altro da fare».

Il ragazzo non sembrava rendersi conto delle contraddizioni insite in quel ragionamento. Disse che Israele stava cercando di trovare una soluzione per gli anni a venire, «forse la pace, un governo cristiano, o magari anche un accordo con i musulmani che ci permetta di vivere in pace con almeno uno dei nostri vicini». Non considerava l’Egitto in pace con Israele - si rifiutò di dirci perché - ma parlava di Israele come di un paese con una missione.

«Qui c’è davvero la possibilità di una pace duratura, perché la gente ha bisogno di noi» disse. «Noi abbiamo bisogno di avere relazioni pacifiche con loro, ma loro hanno bisogno di noi perché siamo più forti, siamo meglio organizzati, possiamo aiutarli. La gente può piacerci o non piacerci, ma abbiamo bisogno di loro perché è nel nostro interesse». C’era un che di troppo zelante in questo soldato, qualcosa di messianico nelle ragioni per cui era lì. Ci sentivamo a disagio, le sue parole ci innervosivano. Stavo registrando la conversazione per la radio canadese, ma lui sembrava piuttosto noncurante del microfono che gli tenevo davanti. L’artiglieria falangista sopra le nostre teste sparò ancora una volta, e dal complesso universitario sotto di noi si alzarono nuovamente le fiamme. Si udi il prolungato crepitio delle mitragliatrici, la forza che si manifestava attraverso il fuoco.

E che ne sarebbe stato, gli chiedemmo, dei palestinesi? li soldato israeliano sospirò leggermente, come se avesse sempre saputo che prima o poi quella domanda sarebbe arrivata. «Senta» disse «so che sta registrando, ma personalmente vorrei vederli tutti morti. Può mandare la registrazione dove le pare: vorrei vedere tutti i palestinesi morti perché sono un male dovunque vadano».

«Non è esattamente la stessa cosa» gli chiedemmo «che diceva Hitler degli ebrei?» «Sì, ma c'è una leggera differenza» ribatté lui «perché i palestinesi ricevono aiuto e qui attorno ci sono molti paesi pronti ad appoggiarli e ad aiutarli. Ma è tutta ipocrisia, vede? I paesi arabi li aiutano solo per distruggere Israele. Non sono interessati al loro benessere. So che è un modo un po’ duro di metterla giù, perché forse sono un po’ suscettibile a riguardo. Personalmente, non mi dispiacerebbe vedere tutti i palestinesi morti, né contribuire a raggiungere questo scopo».

Qualcosa di profondamente inquietante stava esplodendo nell’animo del giovane soldato, qualche fobia potente quanto l'artiglieria sopra di noi. Era come se il tenente avesse improvvisamente e inspiegabilmente deciso di sacrificare la sua moralità al potere di un emozione ben più sinistra. Forse fu il microfono a farlo esitare poco dopo. «So che non suona molto bello, e . .. » Si fermò per alcuni secondi, come se stesse cercando di agguantare i propri pensieri, di riprendere il controllo delle cose che gli erano sfuggite in quella manifestazione di odio. Alcune granate sibilarono sopra le nostre teste e pochi secondi dopo se ne udirono le esplosioni sorde sotto di noi. «Dicevate di Hitler. Conosco l’argomentazione secondo cui gli ebrei hanno sofferto per mano di Hitler e nessun altro deve subire la tirannia degli ebrei. Ma non la capisco. Il nostro primo interesse è vivere in pace e prosperare nel nostro paese, e se qualcuno ci disturba e cerca di distruggerci, non c’è ragione per cui non dovremmo distruggerlo per primi noi. Sa, viene detto anche nella Bibbia».

Nella piana sotto di noi lo scontro a fuoco stava crescendo di intensità e questo sembrava influenzare il soldato israeliano, la cui mano destra si era fermata sulla canna del fucile. «Io non dico: “Uccidiamo tutti”. È solo un desiderio. Personalmente, non penso che il nostro governo si assumerebbe la responsabilità di massacrare tanti palestinesi. Ma in ogni caso il minimo che possiamo fare è distruggere il loro potenziale militare e la loro organizzazione diplomatica».

I pensieri del soldato tornarono sulla questione della potenza israeliana. «Ma noi siamo forti» disse. «Su questo non c’è dubbio. E siamo forti abbastanza per poter scegliere [. .. ] Se non entriamo adesso a Beirut Ovest, non è perché non possiamo: è perché non vogliamo. Ma adesso siamo in una posizione di forza. Spero che i palestinesi non tornino mai nel Sud. A meno che qui non si instauri una vera e propria presenza militare - e spero che non sarà israeliana, ma piuttosto americana, o delle Nazioni Unite - a meno che non si instauri questa presenza, i palestinesi torneranno nel giro diqualche anno e tutto questo sarà stato inutile».

Anche adesso, quando riascolto la registrazione di quell’incredibile intervista (il nastro disturbato dalle granate dei falangisti sparate sopra le nostre teste), sento la mia voce farsi stridula per l’incredulità ad alcune delle parole del soldato. Oggi mi rendo conto che si trattava di un’affermazione straordinariamente profetica. Allora era solo un altro segno di quanto stava per accadere, un esempio dello slittamento morale che avrebbe trasformato l’invasione nella prima sconfitta militare israeliana.

Salutammo molto cortesemente il giovane tenente, che fece persino scattare la mano destra alla fronte in una sorta di cordiale saluto militare. Guardammo di nuovo giù, in direzione della piana, dove ora il fumo proveniente dal complesso universitario aveva formato un ristagno di nuvole scure sulla parte occidentale della città, un cerchio sudicio che aleggiava sul mare fondendosi impercettibilmente con la foschia causata dal calore. La pace avrebbe continuato a costare vite umane.

R. Fisk, Il martirio di una nazione,
ed. cit., p. 275-78.


Mi chiedo se di fronte a questa intervista la ministra Germini consentirà a me di “allibire”, lei che allibisce facilmente di fronte a dichiarazioni a me attribuite. Mi chiedo anche se mai “allibirà” alla lettura di questa intervista del 1982 o se al contrario – come vi è da temere – non pensa di individuare il “soldatino” descritto da Fisk e di proporlo a qualche sindaco d’Italia per una “cittadinanza onoraria”: faremo la fila per stringergli la mano!

Ma passo rapidamente ad alcune considerazioni tratte dalla lettura del brano sopra riportato.

1°) Ho detto che apprezzo i libri e le interviste di Robert Fisk, con qualche riserva critica. Intanto il giornalista britannico è nato nel 1946, cioè dopo la seconda guerra mondiale, o meglio al termine della trentennale guerra civile europea (1914-1945). Quando parla di nazismo può solo ripetere ciò che ha sentito o ha letto, ma in Libano e in altri luoghi del Medio Oriente ci è stato di persona e per questo scrive di cose che ha visto, spesso a rischio della sua vita. Lui non se ne stava in albergo, come la maggior parte dei suoi colleghi, ma andava direttamente sul luogo della guerra, dove il rischio di lasciarci la pelle era elevato, e più volte Fisk ha corso questo rischio. Gli si deve perciò tutto il rispetto, ma apprendiamo da lui, quando egli ci dice delle cose che ha visto e non quando parla di cose che non ha visto e che forse non conosce bene, condividendo un diffuso pregiudizio, la cui creazione è dovuta al governo di quel ragazzino, già sporco di guerra e ormai privo di innocenza, che era andato ad intevistare circa 18 anni fa.

2°) Quanto al ragazzino leggiamo sopra che lui in Israele, ovvero in Palestina, ci era venuto da appena sei anni! Era venuto dalla Francia! Ma i palestinesi che lui mostra di odiare così tanto e di voler cancellare dalla faccia della terra – lui erede delle “vittime” – ci sono nati, e prima di loro i loro padri e i loro nonni, per secoli e per millenni. La «Bibbia» di cui forse assai impropriamente parla comanda innanzitutto: non uccidere, non rubare, etc. Quanti sono andati a privare i palestinesi delle loro vite e delle loro case hanno tutti ucciso e rubato. In nome di un Dio? Del loro Dio? Se fosse così, non abbiamo nessuna esitazione a respingere loro stessi e il loro Dio. Ma avendo letto qualche libro (v. Rabkin) non sappiamo che sionismo e giudaismo sono probabilmente del tutto incompatibili. Voglio crederlo! Se così non fosse, la faccenda sarebbe maledettamente assai più grave.

3°) Un altro elemento di riflessione, che ritengo altamente verosimile, tocca l’essenza della politica sionista e israeliana. La loro immagine del palestinese, se non è quella preferita e più gradita del palestinese morto e meglio dell’arabo morto, giacché hanno bandito dal loro vocabolario ufficiale il nome palestinese, è l’immagine dello schiavo, dell’essere inferiore al quale si offre di benevolenza, se si sottomente e diventa servile. Il giovanotto dimostra di aver ben capito il nocciolo della costante politica israliana: distruggere qualsiasi organizzazione militare e diplomatica ovvero statuale del popolo palestinese. Il che equivale ad un autentico genocidio, che non è la semplice uccisione fisica di una sommatoria di individui, ma l’eliminazione “politica” di un popolo in quanto soggetto politico. È un fenomeno che si è verificato numerose volte nella storia. La scienza politica volgare non solo non ha consapevolezza del fenomeno, ma fa di tutto perché altri non ne abbia mai consapevolezza. Passando ai nostri giorni, si può ben comprendere quanto siano ingannevoli e oziose tutte le chiacchiere sul “processo di pace”. In realtà, si può ben parlare, e con maggior fondamemto, di ricerca ed attuazione di una “soluzione finale” del problema palestinese. Un problema che sarebbe già stato risolto da un pezzo, se fosse dipeso dai soldatini – come quelli sopra intervistati e da noi gratificati con la “cittadinanza onoraria” – e dal loro degno governo, ma che pone non pochi problemi a noi che sappiamo quel sappiamo dalla tv di stato o dai discorsi dei nostri politici e dei nostri ministri. Ho detto “nostri” ma sarebbe più vero dire “loro” politici e ministri.

4°) Al di là del testo sopra riportato aggiungo conclusivamente che di massacri come quello di Sabra e Shatila, o in ultimo di Piombo Fuso, siamo tutti noi “occidentali” responsabili, anche se non personalmente tutti nella stessa misura, ma in un senso tutto politico, per aver permesso i “miti” della fondazionale dello stato di Israele, che come nessun altro, per riprendere Jaspers, merita la patente di “criminale”. Qui sarebbe complesso riprendere un discorso che abbiamo più volte abbozzato, senza mai essere giunto ad una trattazione organica: meriterebbe tutto l’impegno di un libro. Intendo dire che la demonizzazione del nostro passato storico antecedente il 1945 è all’origine di fatti come quelli descritti nel brano e più in generale di un quadro politico globale la cui tragicità non è inferiore alla situazione torico-politica, forse prodotta ad arte nella prima metà del XX secolo. Per dare una misura quantitativa del problema qui accennato basta ricordare la bomba atomica, i cui arsenali sono sufficienti a distruggere il mondo non una ma numerose volte, riducendo la Terra ad un ammasso di meteroriti espulsi nello spazio cosmico.

2.

Informazione Corretta

Una persona normale, ognuno di noi, il quale vuole che certe cose non accadano o non possano accadere usa tutta la diligenza di cui è capace perché non accadano, o se non proprio tutta la diligenza di cui è capace o che possibile, usa almeno una normale diligenza. Il brano che segue è tratto dallo scenario in Sidone, bombardata dagli israeliani si offre alla vista di Robert Fisk insieme ad un suo collega di nazionalità americana, che proprio per questo aveva potuto forzare il blocco israeliano, che impediva l’ingresso ai giornalisti. Lo strazio di cadavere che senza nessuna pietà venivano lasciati alle mosche ed allo scempio dei cingolati è in perfetta sintonia con la filosofia dell’uomo, con la superiore civiltà umana che abbiamo desunto dal brano riportato nel paragrafo precedente. Segue adesso un brano più breve, dove i giornalisti Fisk (inglese) e Randall (americano) vedono morti in putrescenza nello scantinato di una scuola di Sidone. Ecco il loro racconto:
Sul tetto della scuola c’era un buco, come quello che avevamo visto prima sulla porta del municipio, provocato dalla bomba. Non era esplosa a contatto con il tetto. Era stata progettata per detonare solo quando non avrebbe più potuto sfondare le superfici dure che incontrava. Quindi aveva attraversato i tre piani dell'edificio fino a raggiungere la cantina buia nella quale i rifugiati si erano accalcati in preda al terrore e soltanto allora, quando era arrivata a contatto con il pavimento solido e impenetrabile, era scoppiata.

I corpi giacevano in un’enorme catasta, con i bambini in cima e le donne sotto di loro. La bomba doveva aver sollevato la massa di corpi e risucchiato i più pesanti in un vortice. La polvere di calce biancastra formava uno strato più spesso su alcune parti del cumulo piuttosto che su altre, lasciando esposti i bambini, con le gambe divaricate e la testa all’ingiù. Randal era vicino a me e scribacchiava sul suo taccuino. Poi se lo mise in tasca e guardò semplicemente il grande mucchio di corpi. Vidi spuntare le lacrime nei suoi occhi. «Dio santo» disse. «Povera gente, povera gente».

Il giorno dopo, a Beirut Est, un ufficiale israeliano «addetto ai contatti con la stampa» mi avrebbe detto che la storia dei cadaveri insepolti di Sidone era solo «propaganda dell’Olp», che tutti quelli che erano morti nella città erano «terroristi» o - nel peggiore dei casi - erano morti per mano dei «terroristi». La notizia che più di cento persone, bambini compresi, erano morte nello scantinato di quella scuola era «una sciocchezza». Mi consigliò di «controllare i fatti» prima di scrivere articoli diffamatori. Quando gli dissi che ero stato nella scuola e avevo visto i corpi con i miei occhi, mi disse che non ero stato autorizzato ad andare a Sidone. Che avrei dovuto essere accompagnato da un ufficiale israeliano e che non sarei più dovuto tornare in quella città.
R. Fisk, Il martirio di una nazione,
ed. cit., p. 283-84.

La qualità di “corretta informazione”, oggi nel 2010, “ufficiale” e “autorizzata” è rimasta la stessa di quella che era nel 1982, all’epoca cioè dell’invasione israeliana del Libano, la cosiddetta operazione “pace in Galilea”. Forse mai come ai nostri tempi la parola “pace” è stata tanto insultata. Il linguaggio umano non ha mai subito tanta violenza. Mai si è stati tanto lontani dalla semplicità e sincerità evangelica:
«Ma il vostro parlare sia: “sì sì no no”.
Ciò che è in più viene dal maligno».
Non è stato diverso il divieto israeliano durante l’operazione “Piombo Fuso”. Non erano diverse le ragioni. Non era minore la volontà di genocidio. Lo stesso “odio” del 1982, del 1948, del 1882, quando vi fu il primo insiediamento sionista in Palestina. Finché non ci precluderanno l’uso della rete – ci stanno provando – forse oggi riusciamo tuttavia a sapere quello che nel 1982 sarebbe stato impensabile. Va qui aggiunto e sottolineato con forza che la propaganda e l’informazione è diventata essa stessa oggi una parte della guerra, non un suo semplice strumento. Ognuno di noi è quindi un “combattente” nella misura in cui lotta per la verità o per la menzogna, per il riconoscimento puro e semplice di ciò che è o per il suo nascondimento e per la sua mistificazione. Possiamo dire con profonda convinzione che la stragrande maggioranza della stampa e della televisione nonché dei circuiti ufficiali dell’informazione, compresi i discorsi ufficiali dei nostri politici, è parte della menzogna in piena sintonia con la situazione politica del nostro paese, da sempre, cioè da prima che io nascessi, soggetto ad una sovranità limitata ed agli ordini che vengono da oltreoceano e soprattutto dalle lobbies nostrane. Naturalmente, esistono margini di resistenza e ribellione, sia pure rischiosi. Ci diranno che siamo dei “terroristi” anche noi, perché vogliamo e cerchiamo la verità.

Nota. – Il libro di Fisk ha avuto una recensione, positiva, di Stenio Solinas, apparsa – fatto insolito – sul “Giornale”, dove danno il tono ben altre firme. Come prevedibile, l’articolo è ripreso dall’agenzia di propaganda israeliana “Informazione Corretta”, che non abbiamo preso a monitorare da qualche anno. Leggendo il libro di Fisk, in particolare come egli descrive il modo di funzionare e di presentarsi della propaganda israeliana già negli anni ’80, e i cliché abituali della “Informazione Corretta”, di cui qui parlasi, possiamo notare una fortissima analogia di stile, di contenuti, di argomentazioni, di espressioni, di automatismi, luoghi comuni. Sembra la stessa mano o almeno lo stesso ufficio. Non abbiamo un nostro servizio investigativo per indagare oltre. Possiamo solo basarci sull’analisi logica, linguistica, formale. Naturalmente, proseguendo nella lettura del libro di Fisk, che i «Corretti Informatori» ben si guardano dal leggere, si nota tutta la superficialità ed inconsistenza del “corretto commento”. Non potendo noi certo qui pubblicare tutte le 800 pagine del libro, daremo però piccoli estratti e citazioni, appositamente scelti per fare giustizia di anni di propaganda messa in rete da questi sionisti in Italia.

3.

La complicità americana

Daremo di seguito un piccolo brano, che deve essere riprodotto nel suo testo originale per darne tutta l’efficacia stilistica. Ne anticipo brevemente il contesto. Per andare a vedere quanto era successo nello scantinato della scuola, come sopra riportato, Robert Fisk ed il suo collega americano del Washington Post, dovevano superare un posto di blocco israeliano. Il militare sionista aveva ricevo il chiaro e tassativo ordine di non far passare nessun giornalista: il comando politico e militare sapeva bene cosa aveva da nascondere, cosa non si doveva far sapere. Il blocco fu forzato non da Fisk, che era solo un inglese, ma da Randall, che era un americano. Con quali mezzi e con quali argomenti? Direi con la forza della mimica: Randall, in quanto americano, stava lui pagando con le sue tasse il carro armato che stava lì e serviva a massacrare tanti poveri innocenti e a dare a noi, “occidentali”, una sensazione di perpetua vergogna, un senso di frustrazione e impotenza. Ecco il brano:
Non c’era da sorprendersi se gli israeliani non volevano che i corrispondenti stranieri residenti in Libano raccontassero quanto era successo a Sidone. I giornalisti che arrivavano da Israele erano sotto scorta militare e dovevano sottoporre i loro articoli alla censura israeliana. Senza contare il fatto che, i reporter che venivano in macchina da Tel Aviv e da Gerusalemme potevano andare solo sul lungomare di Sidone, al castello dei crociati, nella zona vicino al suq, che non era stata danneggiata dai bombardamenti, e più tardi, al campo di Aio al-Helwe spianato dalle bombe. Ma a nessun giornalista di Beirut era permesso di entrare nella zona di occupazione israeliana.

Il maggiore che fermò me e il giornalista del Washington Post Jonathan Randal sulla strada a sud di Khalde ce lo disse senza mezzi termini. Era un uomo grassoccio, con i capelli castani striati di grigio e parlava un inglese modesto. Si appoggiò al tetto della nostra auto e ci guardò attraverso il finestrino scuotendo vigorosamente la testa. «Ho ricevuto ordini di non permettere a nessun corrispondente di Beirut di andare più a sud di qui» disse. «Dovete tornare indietro». Randal gli spiegò lentamente e pazientemente che, sebbene fossimo giornalisti - gli mostrammo spontaneamente i nostri tesserini - in realtà stavamo andando a Sidone per vedere se la moglie e la figlia di un nostro collega libanese erano ancora vive. Dovevamo portarle dei soldi da parte del marito. «Niente da fare» disse il maggiore. «Mi scusi», rispose Randal. «Ma evidentemente lei non ha capito. Stiamo andando a Sidone a cercare la famiglia di un nostro collega. Perciò deve lasciarci passare».

Intorno a noi, la strada era nel caos. Camion militari che trasferivano le truppe in prima linea, mezzi corazzati per il trasporto del personale e pezzi di artiglieria trainati da altri camion stavano cercando di infilarsi tra la nostra auto e la buca scavata da una bomba che era scoppiata a un metro dalla carreggiata. Una salva di razzi katyusha sparati dall’Olp da dietro l’eroporto di Beirut fischiò sulle nostre teste ed esplose su un dirupo sopra di noi. Il maggiore era furioso. E Randall lo era altrettanto. Scese dalla macchina. Era un uomo snello e muscoloso, fissato con i dettagli come tutti i giornalisti, e molto irascibile. «Stia a sentire, amico» - Randal chiamava tutti «amico» quando era nervoso o arrabbiato - «le ho già detto che dobbiamo passare. Deve assolutamente lasciarci arrivare a Sidone. La nostra è una missione umanitaria». Il maggiore agitò un dito sulla faccia di Randal. «Non me ne importa niente» urlò.

Randal alzò gli occhiali sulla fronte - questo era sempre un segnale pericoloso -e attraversò la strada passando davanti a un altro camion militare. Dietro c’era un carro armato Merkava,
con la sua enorme canna puntata a nord verso l'aeroporto. Randal gli si avvicinò, seguito dal maggiore. «Vede quel carro armato?» chiese. Il maggiore lo guardò. «Be’ io pago le maledette tasse perché voi possiate avere quei maledetti giocattoli, quindi ci faccia passare e non discuta». Un altro uomo si avvicinò a loro, un ufficiale più giovane che parlò al maggiore in ebraico. «Non sposterò la macchina da questa maledetta strada fino a quando non mi farete passare». Il maggiore alzò un dito ammonitore. «Dico sul serio. Lei vorrebbe ordinare a un americano di togliersi di mezzo, ma finché dovrò pagare le vostre maledette guerre con i miei soldi, non ho nessuna intenzione di muovermi di qui». L’ufficiale più giovane fece un cenno a Randal. «Potete andare» disse. Fu così che raggiungemmo Sidone.

R. Fisk, Il martirio di una nazione,
ed. cit., p. 283-84.
Questo è però solo un piccolo episodio. Per capire la “complicità” americana nell’invasione del Libano di questi anni, nel 1982, occorre spostarsi al Dipartimento di Stato, dove pare vi sia stata la copertura di Haig, che aveva già dato tacito via libera a Sharon per l’invasione e poi soprattutto aveva nascosto al presidente Reagan i ripetuti messaggi che arrivano dai sauditi, i quali non gradivano l’invasione e minacciavano il blocco petrolifero e l’uso delle loro armi finanziarie. Quando finalmente il messaggio arrivò a Reagan, vi furono le immediate dimissioni di Haig. Ciò che impressiona, e deve farci riflettere, magari approntando apposite schede, è il vero e proprio “tradimento” di un segretario di stato. Come non piegare ciò con la capacità di infiltrazione di quella lobby descritta da Mearsheimer e Walt, ma anche da Alan Hart? Purtroppo, non si possono rilevare queste connessioni senza provocare l’accusa di “antisemitismo”, e solita cantilena.

4.

La perfidia israeliana
(segue)

martedì 27 aprile 2010

L’implosione ebraica dello stato di Israele: è forse giunto il momento o quanto meno se ne delinea l’immagine.



Non sono un analista e non ho la sfera di cristallo, ma mi sembra che stia succedendo qualcosa. Mi servo di questa pagina per annotare eventi in corso. Provo a riassumere schematicamente. Partiamo da Ahmadinejad. In realtà, lui non ha mai parlato di “distruzione” di Israele, magari a seguito di una testata atomica che non possiede e di cui le prime vittime sarebbero proprio i palestinesi, che non dispongono certo di rifugi atomici. Io dubito che vi sia stata persona seria ed equilibrata che abbia mai ipotizzato come realistico uno scenario del genere. Gli attacchi ad Ahmadinejad e all’Iran sono una forma irresponsabile del tanto peggio tanto meglio: un Medio Oriente tutto nelle fiamme della guerra conviene (così pensano) ad Israele, cha avrà poi le chiavi dei paesi “liberati” e potrà disporre di territori “addomesticati”, come quelli europei. La vergogna della “pace” con l’Egitto è un triste capitolo della lunga storia dell’umiliazione dei popoli.

In verità, Ahmadinejad ha solo parlato di “implosione” di una situazione assurda che è lo stato ebraico di Israele. Ma non dice cose diverse da quelle dette da un Avraham Burg ed ora - udite udite – addirittura da un Enrico Bernardo Levi o da un Finkelkraut, sfegatati sionisti da sempre, ch’io sappia. Costoro, per i quali mai ho avuto simpatia, capiscono la naturale evoluzione della politica finora seguita da Israele: una “soluzione finale” del problema palestinese, ma una “soluzione finale” sotto gli occhi del mondo, che potrà certamente verificare quello che succede al giorno d’oggi! C’è internet ed anche se i grandi media restano saldamente in mani, diciamo sioniste, non per questo si può nascondere al mondo ciò che è successo durante “Piombo Fuso”. Tanto più che a dirlo è l’ebreo sionista Richard Goldstone: quanto più il governo sionista di Tel Aviv tenterà di rendere non credibile il tiepido rapporto Goldstone tanto più avrà reso non credibile se stesso.

La bufala dell’Iran che vuole distruggere Israele dopo la bufala acclarata dei falsi armamenti di Saddam può ingannare solo chi vuol lasciarsi ingannare. Di certo, non chi si dia appena una po’ di pena per documentarsi, se la sua condizione esistenziale gli consente di guardare un poco lo scenario internazionale. Ecco dunque che quel disegno genocida che è stato lungamente incubato in Palestina dal 1882 al 1948 e messo in fase esecutiva dal 1948 a Piombo Fuso e ad oggi, viene al pettine: o li ammazzi tutti, questi palestinesi, massa immonda di goym, o ti accorgi che sono essere umani che hanno sofferto molto di più di quello che gli ebrei dicono di aver sofferto durante alcuni anni dello scorso secolo: i millenni precedenti sono altra storia!

Dei sionisti di cui abbiamo letto non pochi articoli e prese di posizione e che certamente non hanno mai amato i palestinesi, capiscono probabilmente che sgozzarli proprio tutti non si può. Se non altro, per una questione di immagine. Che diamine! Se la cosa avesse potuto passare alla chetichella, senza che nessuno se ne accorgesse, forse forse, ma davanti agli occhi di tutti gli altri goym, non palestinesi, ma utili da spennare, diventa una faccenda troppo rischiosa. Ed ecco dunque, che razionalisticamente occorre accettare il male minore. Quale?

Beh! Una rete di riserve indiane! Che ci serve un Abu Mazen? A che pro lo abbiamo foraggiato fino ad oggi? È da qualche giorno che stavo riflettendo, per un’altra rubrica, su questo brano, guarda caso, di uno dei firmatari del Controppello sionista puro e duro. Merita riportarlo:
«…Notiziola numero 3. Sempre più truppe e militanti dell'Autorità Palestinese passano ad Hamas, incluse quelle addestrate dagli americani tanto da far temere un crollo dall'interno […]. Solo la presenza dell'esercito israeliano impedisce già oggi in Cisgiordania un ribaltone stile Gaza. Abu Mazen e i suoi sanno benissimo che non durerebbero un giorno dopo un ritiro israeliano. Altra ragione del blocco in atto…» (Fonte).
Che Abu Mazen fosse un fantoccio, lo sapevamo. Adesso lo si ammette perfino da parte sionista, intendiamo da parte della propaganda che ci viene ammannita in lingua italo-levantina.

Il problema è che neppure questa soluzione estrema dei due stati è ormai più possibile: troppo tardi! L’ingordigia e l’«odio razzista e genocida», l’ottusità morale, l’offesa al senso comune del pudore è andata troppo avanti. Ho detto che non sono un analista, non è il mio mestiere. Poniamo però che si possa tentare la soluzione della “riserva indiana”, magari in attesa di tempi migliori, al riparo dagli occhi indiscreti del mondo. Ma l’«unica» democrazia, su base razziale, esistente al mondo non vuole questo: sono democratici come può esserlo una banda di briganti che spartisce equamente al suo interno il bottino ed il maltolto. È questa la vera essenza della domocrazia israeliana: “unica,” per fortuna, in Medio Oriente! Il milione e passa di coloni immigrati che a suo tempo Gorbaciov aveva commerciato con gli USA non ammettono neppure per un istante di perdere lo status di coloni privilegiati in una terra non loro. E dunque razionalisticamente e realisticamente non è praticabile altro che lo stato “unico” e “binazionale” dove ebrei e palestinesi, gli odiati goym, possano tornare alle terre e ai villaggi da dove sono stati scacciati dal 1948 in poi, ed all’interno del quale sotto vigilanza internazionale e togliendo le armi ad ognuno debbano entrambi, ebrei e palestinesi, scordarsi il passato ed imparare a vivere pacificamente nel rispetto reciproco.

Un Avraham Burg ha capito quale in concreto poteva essere l’«unica» soluzione praticabile: l’uso del passaporto francese! Ma per il milione e passa di russi che sono stati, a suo tempo, contrattati e scaricati da Gorbaciov il ritorno in Russia, diventerebbe forse problematico. Sento dire che ogni anno sono sempre più gli ebrei che lasciano Israele rispetto a quello che “tornano” nella Terra Promessa, o meglio regalata a spese di terzi. E qui mi fermo, perché non amo l’arte della divinazione e perché la materia pare scottante. Spengo il televisore, che non mi aiuta a capire, e cerco di interpretare le notizie via via che arrivano dalla rete… E ne arrivano. Qui, ad esempio, ma non abbiamo né il tempo di commentare la vergogna che non ha vergogna, a mo di contralltare del topos dell’«ebreo che odia se stesso», ma che è invece consapevole dell‘abisso nel quale il sionismo ha precipitato irrimediabilmente l’ebraismo. Per parafrasare Avraham Burg Hitler non è stato vinto, ma ha vinto su tutta la linea. Per capire il senso di ciò che dico rinvio alla lettura del libro di Burg. Qui mi pongo il solo problema: come possiamo difenderci da costoro?

Lo stesso evento di un dissenso interno al mondo ebraico-sionista si va sviluppando o quanto meno ce ne giungono notizie. La lotta si fa più aspra e subdola. Finché quelli del parlamento ci lasciano riflettere in privato ed in pubblico cerchiamo di farlo. Quando non sarà più possibile pensare, parlare e comunicare pubblicamente, andremo a studiare come facevano i carbonari nella prima metà del XIX secolo. Intanto cerchiamo di fare il punto. Se si va ad ascoltare tutta la registrazione della Commissione Nirenstein di indagine parlamentare, si trova conferarmata ancora una volta quella che è stato il lavoro della propaganda sionista, praticamente da sempre. E cioè: fondere l’idea stessa di ciò che è ebraico con l’idea stessa del sionismo, quindi sionismo = ebraismo e viceversa ebraismo = sionismo. Ciò che non vuole stare nell’equazione, viene bollato come l’«ebreo che odia se stesso», l’«ebreo antisemita», ma dopo che “antisemitismo” non ha più nessun significato oggettivo che ognuno possa arguire. Il senso è solo “dichiarativo”: è antisemita ciò che le varie associazioni ebraico-sionista dicono essere tale. È in pratica una licenza ad uccidere rilasciata in bianco. Se mi voglio liberare di un avversario politico, di un critico pungente e inaffondabile, basta dichiararlo “antisemita” e poi passare la pratica al boia. È triste, ma è esattamente così. In Germania, terra infelice più di ogni altra, ce lo ricordano 200.000 processati dal 1994 ad oggi. Il modello tedesco lo si è chiesto anche per l’Italia e la lobby parlamentare ci sta provando.

Torniamo agli intellettuali ebrei (Levi, Burg...) che in questi giorni si sono accorti che forse la corda è stata tirata troppo. Per citare il solo rapporto Goldstone – redatto da un “ebreo” e da un “sionista” –, evidentemente per un Bernardo Levi incomincia a chiedersi cosa ne dobbiamo fare di questi palestinesi che più ne ammazzi e più fanno figli: una volontà di vivere e sopravvire come popolo di cui non conosco eguale. Nel loro pur sfegatato sionismo non hanno perso costoro tutta la loro lucidità ed hanno compreso che vi sono scarsi margini di manovra: o li ammazzi tutti ( i palestinesi), o devi lasciarsi vivere, non come “moltitudine” dispersa, ma come il “popolo” che sempre più si unisce quanto più li massacri: è la classica identica che sorge dalla contrapposizione amico/nemico. Chi conosce un poco Carl Schmitt sa di cosa parlo. Dalla raccolta delle firme che si sono potute osservare sembra che il dibattuto sia soprattutto francese. Gli italioti sembrano sparuti ma anche quelli di più ristrette vedute. Vedremo cosa ci riserveranno i giorni a venire. Ne terremo nota sempre in questa stessa pagina: non vorremmo crearne di altre.

Quale ragione?
Ne hanno mai avuta una?

A fronte della perfidia con cui tendono le loro trappole, volte proprio a togliere il fondamento stesso di quella democrazia di cui si riempiono la bocca per meglio togliercela, cioè a fronte del tentativo in atto di togliere libertà di pensiero e di parola, dobbiamo reagire con un uso sempre più intenso della ragione e dell’arma della critica. Analizziamo pertanto l’Appello pro Wiesel, il cui personaggio è tutto dire. Eccone il testo:
Con Elie Wiesel per difendere Gerusalemme
[E dei palestinesi che che facciamo? Chi li difende? Chi li ha mai difesi? Non posso cancellare dai miei occhi le numerosi immagini di palestinesi letteralmente scacciati dalle loro case, in Gerusalemme, e non solo in Gerusalemme, case che ancora avevano un pregio e senza parlare di quelle letteralmente distrutti.]

(Fonte)

« Salviamo la Ragione »
[Di quale ragione stiamo parlando?
Della ragione del carnefice o di quello della vittima? Non sono la stessa cosa.
Qual è la vostra ide di ragione? Esiste ancora una ragione comune per tutti gli uomini?]


Un gruppo di intellettuali e personalità ostentatamente rivendicando la loro ebraicità
[Rabkin è un ebreo o un impostore? Per chi conosce i suoi argomenti, il libro disponibile anche in italiano, qui la questione è chiara e a prova di inganno: la propaganda, l’Hasbara, è ormai arrivata al capolinea. Ci sono sempre più “ebrei” che comprendono meglio dei sionisti come l’ebraismo stia giocando la sua ultima carta. Leggere Burg, per capire. Certo, io qui sono un esterno, ma ho il diritto di osservare, perché qui ne va di mezzo soprattutto la mia libertà. Io non ho nessuna responsabilità di tutte le sofferenze che in oltre un secolo sono state inflitte ai palestinesi. Lo slogan “Israele siamo noi” lo restituisco a chi lo ha coniato: io non sono e non voglio essere Israele ed è mio diritto non esserlo.]
come segno di obiettività ha diffuso un "Appello alla ragione", dandogli la più ampia visibilità. In realtà, il contenuto va contro i suoi obiettivi dichiarati: la democrazia, la moralità, la solidarietà della diaspora, la preoccupazione del destino di Israele.
[Non ripeto cose sopra dette, ma qui si è ormai aperto un fossato sempre più profondo circa il modo di intendere cosa è “moralità”]
La parte politica che lo sostiene è chiara a tutti.

1) L'idea di una pace imposta a Israele sotto attacco, anche l'intervento delle varie potenze, è una negazione della democrazia e del diritto internazionale, con aspetti neo-colonialisti.
[Il sionismo è la forma terminale del colonialismo del XIX e XX secolo. Chi ha redatto questo documento o vuole ingannare se stesso, o non sa quel che dice, o insulta l’intelligenza di una persona appena discretamente informata. Di quale democrazia vogliamo parlare? Dei 750.000 palestinesi espulsi nel 1948 e rimpiazzati da immigrati chiamati da ogni parte del mondo? Quella dei pirati e dei briganti è pure una democrazia se appena deliberano a colpi di maggioranza? O la democrazia dei ladri di Pisa, che la notte vanno a rubare insieme e di giorno litigano? La democrazia è al massimo una forma politica, ma non la misura in se del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. E che? In nome della democrazia vuoi fare il massacro dei palestinesi, o moderni “cananei”? Ma davvero possiamo accettare questo sorta di interpretazione criminale degli antichi testi biblici? Se cosi fosse, l’ebraismo sarebbe morto e sepolto. A meno che costoro non pretendano di sterminare nel mondo 6 miliardi di cananei. I mezzi ce li avrebbero: quell’atomica che negano di avere.]
Essa viola la libera scelta dei cittadini della democrazia israeliana e crea un precedente pericoloso per tutte le altre democrazie.
[È veramente irritante e stucchevole questo tentativo di chiamare il mondo intero a copertura di misfatti e crimini che sono solo israeliani. La democrazia qui non c’entra nulla ed è un miserabile espediente per chiamare a raccolta i caparbi che con la ragione, la giustizia e l’umanità non hanno mai avuto nessun autentico rapporto.]
2) Si basa su un presidente americano che non riesce ad affrontare la sfida mortale dell'Iran
[E non vi bastano il milione ed oltre di vittime civili provocati dalla sola guerra all’Iraq da voi sponsorizzata anche con false informazioni di intelligence date al governo americano? Volete ancora che le nostre mani grondino del sangue anche di milioni di iraniani, colpevoli di non avere quell’atomica che voi invece avete? Può tanto il potere della menzogna che amministrate al mondo con sacerdotale sicumera?]
e dell’ Unione europea che si è globalmente identificata con la causa palestinese.
[Magari fosse così! Se lo fosse solo per una minima parte, sarebbe finalmente cessate le tribolazione di un popolo. Non solo mentite sapendo di mentire, ma sapendo anche che una persona dicretamente informata capisce facilmente la portata propagandistica dell vostra menzogna.]
Israele è sotto la minaccia di sterminio pronunciata da parte della Repubblica islamica dell'Iran e dei suoi satelliti, al nord con Hezbollah, al sud con Hamas nella Striscia di Gaza.
[Di sterminio che progredisce ogni giorno sotto i nostri occhi noi vediamo solo quello palestinese, che stando a ciò riporta Robert Fisk nel suo ultimo libro uscito in italiano, almeno qualche vostro soldatino, avrebbe voluto vedere tutti morti fin dalla “Pace in Galilea”, la “pace delle fosse comuni, quando i corpi fossero ancora rimasti intatti per poterli seppellire. Le menzogne dovrebbe essere più intelligenti per essere credute, ma a voi le menzogne basta dirle e ripeterle come un disco: effetto marketing, dove siete molto bravi.]
3) Mentre questi firmatari attribuiscono la responsabilità della situazione bloccata sul solo Israele, tutte le indagini obiettive dimostrano che né l'Anp né la società palestinese sono realmente interessate ad una pace giusta: 66,7% dei palestinesi rifiutano la creazione di un loro stato sulle frontiere del 1967, il 77,4% ha respinto l'idea che Gerusalemme possa essere la capitale di due stati (aprile 2010, sondaggio da parte dell'Università di Al-Najah di Nablus).
[Ma di quale pace si può parlare a chi è stato cacciato di casa e conserva ancora le chiavi e gli atti di proprietà? Pace di che? Quella del camposanto? Quella di poter riposare in pace come i propri padri, quando manco i cimiteri sono stati risparmiati dal glorioso, giusto e santo eservito di Davide? L’unica pace è quella che può nascere dal perdono della gente a cui avete fatto tanto male.]
La creazione di uno stato palestinese senza la conferma della volontà di pace del mondo arabo, senza eccezioni, esporrebbe il territorio di Israele a una debolezza strategicamente fatale.
[E che volete fare? Voi lo 0,2 % del Medio Oriente volete distruggere e mettere sotto ferro e fuoco il 98,8% del territorio e del mondo che vi circonda? Non potevate starvene dove eravate? Perché siete andati a scacciari i legittimi abitanti dalle loro case? Ve lo ha detto il vostro Dio? Falso! Sentite al riguardo cosa hanno da dirvi quelli di Neturei Karta! Sono non meno ebrei di voi, forse lo sono soltanto loro, e voi non lo siete per nulla.]
4) « Appello alla ragione » soffre di amnesia: gli accordi di Oslo hanno portato ad un'ondata senza precedenti di terrorismo,
[È veramente un abuso infinito questa tiritera del “terrorismo”, dietro la quale vi nascondete per giustificare ogni sorta di nefandezza. Se mai la parola “terrorismo” ha ancora un senso, vi appartiene interamente: nessuno più di voi ha fatto uso più intenso e massiccio del terrorismo, anche ideologico.]
il ritiro dal Libano alla nascita di Hezbollah - e le garanzie del Consiglio di Sicurezza si sono rivelate carta straccia.
[L’ONU vi ha condannato oltre 80 volte e resta sempre valida la risoluzione che riconosce ai profughi palestinesi il diritto al ritorno nelle loro case. L’ONU non è quello, davvero iniquo, che grazie a Stalin ha consentito la nascita della stato di Israele, in violazione di ogni principio di diritto naturale, una dotrina che Stalin non aveva in grande considerazione]
Il disimpegno da Gaza ha portato al colpo di stato da parte di Hamas
[Anche qui il lettore intelligente sa che voi vorreste governi fantocci in tutto il mondo, proni ai vostri volere. Ma tutto il mondo ha potuto osservare come mai vi furono elezioni più democratiche di quelle che hanno dato ad Hamas la legittima rappresentanza del popolo palestinese. Non è affatto vero che Hamas ha fatto un colpo di stato, ma è vero che ha sventato il coklpo di stato che voi volevate fare per togliere di mezzo un governo legittimo che non si piega ai vostri volere, come invece fa il fantoccio Abu Mazen. Ma forse l’epoca dei quisling e dei kapà è finita per sempre.]
e una pioggia di missili nell'arco di parecchi anni.
[Ma quali missili? I sigari? Non vi la benché proprorzione fra i crimini, i massacri, i genocidi che voi avete fatto dal 1948 ad ed un resistenza poco più che simbolica per far sapere ala mondo che l’aggredito, quello che è stato invaso, si vuole difendere e vuole resistere, generazione dopo generazione.]
Domani "Gerusalemme Est" e lo Stato di Palestina, saranno sotto il giogo di Hamas?
[Vi ha già detto il vostro correligionario o connazione Finkelstein che suonavate la stessa musica, lo stesso “odio”, la stessa propaganda quando Hamas non esisteva neppure. Il votro servizio di propaganda ha ormai esaurito tutte le risorse disponibile. Potete contare soltanto sulla totale ignoranza altrui di fatti di per sè evidenti.]
Il rammarico dei firmatari di questo appello non servirà a nulla ...

5) La morale e l’onore, l'impegno per la pace, non sono prerogativa di nessun campo.
[Certamente non sono una vostra prerogativa. rappresentate esattamente il contrario.]
Sono ogni volta in gioco. Per le sue motivazioni parziali e di parte, questa "chiamata alla ragione" contribuisce ai tentativi di boicottaggio e di delegittimazione che minano lo stato d’Israele, e pregiudica gravemente l'esistenza della sua popolazione.
[Ma su cosa potete fondare la vostra legittimazione? Sul diritto di cacciare gli altri dalle loro case, dai loro villaggi, dalla loro patria? Come è possibile tanta follia sulla faccia della terra? Nessuno è legittimato a rubare e uccidere, a prendere le cose altrui e a straziare le sue carne, a trattare gli uomini da bestie.]
6) Davanti alle vere minacce che colpiscono Israele nella sua stessa esistenza
[qui ci interessa l’esistenza dei palestinesi che voi avete fatto di tutto per annientare: avete tolto ai figli i padri e alle madri i loro neonati e li avete fatti bruciare al fosforo come fiammiferi che non si vogliono spegnere: leggere Fisk per la documentazione dei “bambini al fosforo”. Giustificare ciò in nome di un qualsiasi dio è la più grande di tutte le bestemmie]
e che compromettono le probabilità di una pace duratura in Medio Oriente,
[voi avete sempre portato la guerra e la pace è cosa che non vi ha mai interessato. Ciò che volete è una guerra senza fine. Non vedete l’ora di attaccare l’Iran e vorreste la nostra copertura materiale e morale: altro che burqa e veli!]
noi vogliamo costituire un movimento di opinione in seno all'unione europea di cui siamo cittadini
[con quanti passaporti in tasca? E chi ne ha uno solo che deve fare? Deve sottostare a che ne ha più di due?]
e che intende difendere e spiegare la legittimità dello Stato di Israele
[I cittadini europei dovrebbero preoccuparsi dell’unica patria di cui appunto cittadini e non renderela schiava di Israele e delle sue follie che dopo aver offeso ogni elementare senso di umanità mettono in pericolo la pace nel mondo.]
come parte di una vera pace, e la lotta contro l’antisemitismo che sta crescendo pericolosamente.

Chiediamo a tutti di firmare questa dichiarazione.

Firmate e fate firmare l'appello "Salviamo la Ragione"

Per firmare clicca sul seguente link http://www.dialexis.org

Prime firme (raccolte in Francia) :
Jean Pierre Bensimon, professore di Scienze sociali, Raffaello Draï, professore di scienze politiche e di diritto, Judith Gachnochi, psicologo, George Gachnochi, psichiatra e psicoanalista, Nicolas Nahum, architetto, Georges Sarfati Elia, professore delle università, linguista e filosofo, Perrine Simon Nahum, ricercatore al CNRS, storico, Pierre-André Taguieff, direttore di ricerca al CNRS, filosofo, scienziato politico e storico delle idee, Michele Tribalat demografo, Shmuel Trigano, professore di sociologia politica, direttore delle rivista "Controverses."

[Sui nomi delle persone mi astengo in critiche che fatalmente sarebbero bollate come antisemitismo, per fortuna ormai svuotato di ogni senso per l’abuso strumentale che se ne è voluto fare. Ma certo ognuno si assume la sua responsabilità davanti alla propria coscienza, davanti a Dio, davanti agli uomini.]
Anche Bat Ye’or ha aderito, e tanti altri…nel sito www.dialexis.org l'elenco aggiornato delle firme.

In Italia si sta preparando un appello di carattere internazionale, coordinato da Fiamma Nirenstein. IC ne darà notizia al più presto.
È difficile fare la conta di chi sta da una parte e di chi sta dall’altra. La retta coscienza non si sottomette ai conteggi: et si omnes ego non! Le posizioni morali e politiche nascono da un profondo lavorio della coscienza, dove chi più sa e sente si assume alche il penso del concittadino che non sa o è ingannato da che di professione ordisce inganni e fabbrica menzogne.

Delenda: 40. «Osservatorio di politica internazionale. Nuove forme di antisemitismo e mezzi di contrasto. Approfondimento a cura di Andrea Spagnolo…»

Homepage
Precedente - Successivo
Vers. 1.0/15.4.10

Anziché di un libro, come di solito, ci occupiamo del fascicolo di una pubblicazione periodica dell’ISPI, che sembrerebbe essere la massima istituzione italiana per lo studio della politica internazionale. Non ne abbiamo esaminate tutte le altre pubblicazioni e qui ci limitiamo a questo solo testo che è stato segnalato da un lettore di “Civium Libertas” alla nostra attenzione critica. Si tratta di un fascicolo di circa 40 pagine. Avremmo preferito leggerlo tutto e solo dopo scriverne. Ma abbiamo numerose altre letture in corso, che interrompiamo e riprendiamo secondo i nostri ritmi fisiologici di lavoro e gli altri nostri impegni. A prima vista il fascicolo non presenta nessuna dignità scientifica. Appare subito manifesto il suo carattere militante e propagandistico. Meriterebbe certamente di essere ignorato, per dedicare il proprio tempo a ben altre pubblicazioni, ma ci ha impressionato apprendere che tutta la serie di questi Fascicoli viene stampato dal Servizio studi della Camera dei Deputati e diffuso ai parlamentari, che dunque si nutrono di simili “approfondimenti”.

Procediamo dunque annotando a margine le nostre osservazioni via via che procediamo nella lettura. Volutamente non indaghiamo sulla persona dell’autore. È forte il timore che ci si possa procurare l’ennesima accusa di antisemitismo se appena ci peritassimo di tracciare una biografia intellettuale e politica del suo autore. Le opzioni politiche ed i suoi pregiudizi intellettuali ci riescono talmente evidenti e macroscopici che abbiamo paura di andarli a scoprire con un’apposita ricerca. Facciamo pertanto una deliberata scelta di ignoranza dell’autore del fascicolo per concentrarzi sulla sua persolale “illustrazione” del tema indicato nel frontespizio. Saremo scrupolamente attenti a ciò che leggeremo nello stampato, senza interrogarci sul suo autore, sui suoi obiettivi, sulle sue dipendenze, e soprattutto sui suoi malcapitati nemici. Che Israele investa ingentissime risorse per la promozione della sua immagine all’estero è fatto risaputo ad abundantiam. Che esiste un potere di pressione enorme da parte di numerose lobbies pro Israel, radicate perfino nei parlamenti, è fatto dato qui per noto. Per evitare appunto facili accuse di antisemitismo non andiamo ad indivuare i soggetti per mezzo dei quali Israele porta avanti la sua immagine di promozione all’estero.

Mi limito qui a raccontare un fatto gustoso e divertente, appreso dalla viva bocca di un europarlamentare in una conferenza pubblica. Questi ha notato la grande abilità ed efficienza pubblicitaria da parte di Israele nel promuovere le proprie ragioni a fronte della totale o quasi mancanza di mezzi e organizzazione nella controparte palestinese. Nel corso del dibattito sulla recezione del rapporto Goldstone da parte del parlamento europeo, gli agenti lobbististici israeliani stavano illustrando la ricorrente tesi degli “scudi umani”, ma si erano dimenticati di cancellare la data dalla diapositiva, che era precedente a quella dell’Operazione “Piombo Fuso”, durante la quale le vittime avrebbero fatto uso di “scudi umani”, supponendo che sia lecito colpire siffatti “scudi” con quel che dovrebbero proteggere e sorvolando sulla presunzione che le vittime debbano offrirsi a petto scoperto alle armi israeliane, notevolmente superiori, fino ad includere un arsenale atomico che è il classico segreto di Pulcinella: la cosiddetta “comunità internazionale” finge ufficialmente di non sapere e nessun “diritto umano” è stato assicurato all’ebreo Mordechai Vanunu, che ha svelato al mondo un simile segreto di Pulcinella. Essendo stato rapito proprio a Roma, complice una agente del Mossad che si era finta sua disinteressata amante, il povero Vanunu non è entrato in nessuna lista per il conferimento della cittadinanza onoraria romana. Non ci vogliamo qui distrarre oltre con un elenco di cui a mente abbiamo adesso due nomi. Almeno lui , Mordechai, in Roma ci ha messo piede, fidandosi delle nostre leggi e dei nostri governi! Ma, attenti, anche Mordechai Vanunu è un “antisemita”, della specie peggiore: gli “ebrei che odiano se stessi”, una fantastica categoria concettuale coniata dai servizi di propaganda all’estero e di promozione dell’immagine, detta anche Hasbara.

La “comunità internazionale”: cosa è? Nella letteratura di diritto internazionale e nella convegnistica questo termine stucchevole e idilliaco ricorre spesso. Ma i suoi soggetti sono innanzitutto gli stati, che al momento in cui scrivo sono in numero di 189, elencato nel Calendario atlante De Agostini. Di ognuno di essi redigiamo singola scheda, studiando per ognuno di essi la politica estera ed in particolare le posizione assunte in ambito ONU, dove appunto Israele ha collezionato il più alto numero di condanne per violazione dei diritti umani e per crimini di guerra. In ultimo, vi è stato il rapporto di Richard Goldstone, pure lui “ebreo” e “sionista”, ma del gruppo “antisemita” degli ebrei che “odiano se stessi”. In verità, proprio per il fatto di essere un “ebreo” ed un “sionista” si può sospettare Goldstone di aver edulcorato non poco il suo rapporto. Infatti, ha dato un poco di torto anche ad Hamas, ma Hamas è l’aggredito che si difende, non l’aggressore che attacca. Ma qui anticipiamo troppo un discorso, che inizia per lo meno nel 1948 con quella “Pulizia etnica della Palestina”, di cui parla un altro ebreo “odiatore di se stesso”, dunque antisemita, tal Ilan Pappe, che ha dovuto lasciare Israele per minacce ricevute. Gira per l’Europa a presentare il suo libro, ma ogni volta le locali comunità ebraiche esercitano tutto il loro potere perché gli venga negata la sala. A Monaco di Baviera questa manovra è apparsa scopertamente. In altre città si è agito nell’ombra, secondo un costume consolidato.

(segue)

domenica 25 aprile 2010

Questioni linguistiche: come si traduce in italiano l’inglese deportation? – L’occupazione del linguaggio e l’espulsione del senso non gradito.

Precedente - Successivo

IL MONDO PENSATO ALLA ROVESCIA
Paradigmi di «Informazione Corretta»
3.

Il termine inglese “deportation” e la “corretta” traduzione italiana, made in Israel.

La mia attenzione è caduta sulla saccenza con la quale gli anonimi corretti informatori tirano le orecche ad un giornalista da loro assai amato, per non dire odiato, Umberto De Giovannangeli a proposito della traduzione italiana di “deportation” come “deportazione” in un articolo per il cui contenuto, alquanto tragico, si rinvia. Ripeto: l”attenzione è qui concentrata sulla questione linguistica, anche se la gravissima violazione dei “diritti umani”, ancora una volta riscontrata nell’«unica» (fortunatamente) «democrazia del Medio Oriente», richiederebbe ben altri riflessioni e denunce. Ma il linguaggio è una componente essenziale nella propaganda che dal dopoguerra ad oggi è stata capillarmente depositata nelle nostre teste da tutto il sistema educativo ed informativo. La decostruzione della propaganda va fatta quindi proprio svelando le falsità della comunicazione propagandistica. Ma riportatiamo l’«eletto commento», sublime per la sua maestà e per la “carità” di cui trasuda:
«…Il primo appunto è la traduzione dall'inglese che Udg ha fatto della parola "deportation", resa con "deportazione", mentre il termine corrispondente in italiano è "espulsione". Scrivere deportazione richiama i campi di concentramento di nazista memoria, paragone spesso evocato dagli odiatori di Israele. Invitiamo Udg, quando tradurrà di nuovo questa parola, ad usare l'equivalente corretto…» (Fonte, corretta ed eletta).
Abbiamo studiato inglese ed altre lingue quanto basta per riuscire a fare un controllo di vocabolario. Abbiamo anche tradotto non pochi testi in italiano da diverse lingue. Il miglior dizionario bilingue inglese-italino che io conosco il Grande Sansoni diretto da Vladimiro Macchi. Vado a deportation ed ecco cosa trovo:
«deportation, s. 1 [diritto] (of an alien) espulsione f; (of a criminal) deportazione f. – 2. (banishment) bando m, esilio m.»
Ebbene, come ben sa chiunque a a scuola abbia studiato latino o greco, si tratta di scegliere nelle lista dei significati quello più appropriato per la traduzione. Se il significato non è riportato nel vocabolario, si corrono gravi rischi, ma se è riportato ai miei tempi si poteva andare a contrattare con il severissimo insegnante di lingua greca. Intano, malgrado la corretta saccenza il significato “deportazione” per “deportation" esiste. Del resto, il termine originario è chiaramente latino, non inglese o germanico, con tanto di particella "de” e di verbo “portare”, che rende assai facile la costruzione del senso etimologico. È certamente scongiurato il segno della matita “blu”. Si tratta di vedere se può mettersi un segno rosso. E per questo dobbiamo studiarci il contesto.

Leggendo l’articolo di De Giovannangeli, che riporta la presa di posizione di organizzazioni pacifiste israeliane che hanno denunciato la gravissima situazione, che non è nuova, si apprende come la popolazione residente nei “territori occupati” continui ad essere alla mercè di arbitrare “ordinanze” delle forze militari occupanti, che si ergono anche a maestre di diritto. Per ragioni non di umanità, ma del tutto intrinseca al complesso sistema della propaganda sionista, è di essenziale importanza che non vengano mai fatte analogie fra i trattamento inflitto da sempre alla popolazione autoctona palestinese ed il trattamento subito dagli ebrei quale abbiamo visto in innunerevoli fiction televisive ed una narrazione, la cui disamina critica è vietata per legge. Da qui la necessit per i «Corretti Informatori» che non si usi il termine “deportazione” per i palestinesi di Cisgiordania – ribattezzata Giudea e Samaria – perché sarebbe in stridente contrasto con la “deportazione” degli ebrei in Europa.

Si dovrebbe pertanto parlare – secondo i “corretti informatori”, che sono ci insegnano, loro a noi, perfino la nostra lingua madre, noi poveri goym – non di “deportazione” ma di “espulsione”, come si conviene a dei “clandestini” beccati in flagrante sbarco clandestino. Se non ché verso la fine dell’articolo ci capita di leggere di un certo Ahmad Sabbah, «che aveva appena finito di scontare un periodo di 10 anni reclusione in un penitenziario israeliano». “Sopravvissuto” al penitenziario, Ahmad torna finalmente «nella città natale di Tulkharem (in Cisgiordania), dove lo attendevano i familiari. Ma ecco che sulla base delle nuove ordinanze, di cui si parla nell’articolo, il povero Ahmad non fa in tempo a giungere al paese che subito i soldati con la stella di Davide lo acciuffano e lo… deportano verso la Striscia di Gaza. Mi è ancora assai caro il ricordo del mio insegnante di greco e sono certo che non avrebbe potuto mettermi nessun segno rosso, anche perchè è da interpretare e da rendere il senso che l’autore da cui si traduce intendeva dare al termine. Che si tratti di “deportazione” nel “lager” di Gaza è cosa di cui non può dubitarsi. Lasciamo volentieri ai “corretti informatori” il loro italiano “levantino”!

sabato 24 aprile 2010

Testi di studio: 39. Alain Ménargue: «Le mur de Sharon» (Franceinter, 2004).

Homepage
Precedente - Successivo
Vers. 1.0/15.4.10

Sono riuscito finalmente a procurarmi il libro di Alain Ménargue, sulla cosiddetta “barriera di sicurezza”, che in Israele rinnova e supera le vergogne del muro di Berlino. O meglio, non è che il muro di Sharon sia successivo all’edificazione e demolizione del muro berlinese. In realtà, il concetto di separazione del puro dall’impuro era già presente nella mente dei padri del sionismo, da Ménargue citati nel testo. Il libro, esaurito da tempo, era introvabile anche nelle biblioteche a me note e accessibili. Solo grazie al mercato antiquario ho potuto acquistarne una copia.

(segue)

venerdì 23 aprile 2010

Teodoro Klitsche de la Grande: «Ancora sulle elezioni regionali: rischio di un bis». Memoria depositata al TAR.

Homepage
Precedente - Successivo

Continuano le vertenze sulle elezioni regionali del Lazio, col rischio del bis. Presentiamo parte della memoria depositata al T.A.R. dall’avv. Teodoro Klitsche de la Grange, che per la sua disamina sulle innovazioni dell’ultimo ventennio alle forme di governo delle Regioni, Province e Comuni, presenta un interesse politico-istituzionale.

* * *

ECC.MO T.A.R. DEL LAZIO
(R.G. 2507/2010)
SEZ. II bis (Ud. 6/5/2010)

MEMORIA
Per A. BRANCATI + 1
CONTRO
Ufficio centrale Regionale ed altri

DIRITTO

Ci riportiamo in primo luogo al ricorso 2507/2010 limitandoci ad argomentare ulteriormente sul motivo di ricorso

L’interpretazione logico-sistematica

1.2 Nell’ultimo ventennio l’ordinamento degli enti politici territoriali sub-statali (ma, anche, in misura minore, quello statale) è profondamente mutato: da un modello (tendenziale e prevalente) a carattere assembleare-parlamentare a uno presidenziale.

Le innovazioni al Titolo V (p. II) Costituzione.

1.3 Le tappe di questa trasformazione sono state per Comuni e Province le L. 142/90 e L.81/93; per le Regioni, che qui interessa, la novella costituzionale (L.c. 22/11/1999 n. 1 e successive integrazioni), con le profonde innovazioni al titolo V – (parte seconda) della Costituzione e le (conseguenti) novellazioni/revisioni degli Statuti regionali (tra cui quello della Regione Lazio, avvenuto con L.S. 11/11/2004, n. 1).

Pur nel rispetto dell’autonomia statutaria regionale la Costituzione (novellata) indica alcuni principi/direttive in materia statutaria (e di ordinamento) regionale.

Con l’art. 121 indica gli organi e le loro funzioni/poteri, in omaggio alla distinzione dei poteri (I comma): legislativo al Consiglio regionale (II comma); esecutivo alla Giunta (III comma); di direzione politica (e “centralità istituzionale”) al Presidente della Regione (IV comma).

L’art. 122 (ultimo comma) dispone che “Il Presidente della Giunta regionale, salvo che lo statuto regionale disponga diversamente, è eletto a suffragio universale e diretto. Il Presidente eletto nomina e revoca i componenti della Giunta”. Quindi Consiglio e Presidenza sono ambedue eletti direttamente dal corpo elettorale; il Presidente nomina (e revoca) i componenti della Giunta. È chiarissimo in queste disposizioni: a) la dipendenza diretta dal voto popolare dei due organi, senza la “mediazione” dell’elezione o della fiducia del Presidente da parte del Consiglio; b) l’autonomia del Presidente che nomina l’esecutivo di propria fiducia (la Giunta), senza intervento (di fiducia o d’altro) da parte del Consiglio. Ovviamente ambedue queste innovazioni sono tipiche degli ordinamenti presidenziali (o semi-presidenziali) (v. artt. 6 e 8 Cost. V Rep. francese; art. II, sez. I Cost. U.S.A.).

L’art. 126, in mancanza di un autonomo e discrezionale “potere di scioglimento” dell’organo legislativo, attribuito per lo Stato al Presidente della Repubblica, lega lo scioglimento all’approvazione della mozione di sfiducia (o a determinati casi di cessazione della carica del Presidente) “L’approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta eletto a suffragio universale e diretto, nonché la rimozione, l’impedimento permanente, la morte o le dimissioni volontarie dello stesso comportano le dimissioni della Giunta e lo scioglimento del Consiglio.

In ogni caso i medesimi effetti conseguono alle dimissioni contestuali della maggioranza dei componenti il Consiglio”; e quindi segue l’indizione di nuove elezioni.

Lo Statuto regionale del Lazio.

1.4 Il modello presidenziale delineato dalla novella al Titolo V della Costituzione è stato puntualmente seguito dalla Regione Lazio, la quale con L.S. 11/11/2004 n. 1 si è data un nuovo Statuto.

Questo all’art. 18 dispone: “La forma di governo della Regione è determinata dallo Statuto regionale, in armonia con i principi della Costituzione e in osservanza del principio della separazione dei poteri”; l’art. 19 (ultimo comma) prescrive lo scioglimento del Consiglio in caso di dimissioni della maggioranza dei consiglieri; l’art. 23 l’attribuzione al Consiglio della funzione legislativa; l’art. 40, comma I, ripete la disposizione costituzionale che “Il Presidente della Regione è eletto a suffragio universale e diretto, in concomitanza con il rinnovo del Consiglio regionale”. Segue l’art. 41 che elenca le funzioni dell’organo-Presidenza; l’art. 42 la nomina e revoca dei componenti della Giunta (“Il Presidente della Regione, entro dieci giorni dalla proclamazione, nomina i componenti della Giunta regionale, tra i quali un Vicepresidente, scegliendoli anche al di fuori del Consiglio regionale”; l’art. 43 la mozione di sfiducia (“1. Il consiglio regionale esprime la sfiducia nei confronti del Presidente della Regione mediante mozione motivata, sottoscritta da almeno un quinto dei suoi componenti e approvata per appello nominale a maggioranza dei componenti stessi. La mozione non può essere messa in discussione prima di tre giorni e non oltre venti giorni dalla presentazione.

2. L’approvazione della mozione di sfiducia comporta le dimissioni della Giunta regionale e lo scioglimento del consiglio”). L’art. 44 disciplina le ulteriori cause di cessazione dalla carica di Presidente “1. Le dimissioni volontarie, la rimozione, la decadenza, l’impedimento permanente e la morte del Presidente della Regione comportano le dimissioni della Giunta regionale e lo scioglimento del Consiglio regionale.

2. L’esistenza di una causa di cessazione dalla carica di Presidente della Regione, fatta salva l’ipotesi della rimozione nonché di scioglimento del Consiglio ai sensi dell’art. 126, Comma 1, della Costituzione, è dichiarata con proprio decreto dal Presidente del Consiglio regionale”. Da cui consegue il principio che Presidente e Consiglio simul stabunt simul cadent; è escluso che il Consiglio possa nominare altro Presidente, neanche per l’ordinaria amministrazione e limitatamente al periodo elettorale.

L’art. 45 è particolarmente interessante ai fini della soluzione della questione de qua.

Infatti il comma 1 conferma la nomina dei componenti della Giunta da parte del Presidente (art. 42), tra i quali espressamente cita il Vice-Presidente.

Il comma 2 dispone che “Il Vicepresidente sostituisce il Presidente in caso di assenza o impedimento temporaneo”; il comma 4 la durata del Presidente e della Giunta “Il Presidente della Regione e la Giunta durano in carica fino alla proclamazione del Presidente della Regione neoeletto” (quindi fino alla nuova elezione da parte del corpo elettorale). Il che esclude la nomina di sostituti anche temporanei.

Il comma 6 prescrive “La Giunta dimissionaria ai sensi dell’art. 19, comma 4, dell’articolo 43, comma 2, dell’articolo 44, comma 1, resta in carica, presieduta dal Presidente della Regione ovvero dal Vicepresidente nei casi di rimozione, decadenza, impedimento permanente e morte del Presidente, limitatamente all’ordinaria amministrazione, fino alla proclamazione del Presidente della Regione neoeletto”. Il che conferma sia il principio che a governare è sempre il Presidente eletto dal corpo elettorale, sia che i casi di “reggenza” del Vicepresidente non coincidono in tutto con quelli elencati nell’art. 44, perché manca il caso delle dimissioni volontarie, cioè proprio quello che costituisce la ragione delle discussioni del Presidente Marrazzo: non solo fatto notorio, ma accertato e dichiarato nell’atto del Presidente del Consiglio regionale (Astorre) del 29 ottobre 2009, 201/VIII, quale causa di scioglimento del Consiglio.

Tutte tali disposizioni confermano il principio che a dirigere “l’esecutivo” è chi è stato eletto dal corpo elettorale alla carica di Presidente: non solo la nomina diretta per elezione, ma la “clausola di dissolvenza” per cui sia la sfiducia che altre cause di cessazione dalla carica di Presidente comportano l’automatico scioglimento del Consiglio, e la stessa durata della carica, per cui, anche in caso di crisi politica (con convocazione dei comizi elettorali) continua a governare il Presidente uscente eletto, fino all’insediamento del nuovo Presidente eletto.

Il sistema negli enti locali

1.5 D’altra parte un sistema assai simile vige per le elezioni comunali e provinciali. La L. 25/03/1993 n. 81, all’art. 6 dispone “Nei comuni con popolazione superiore a 20.000 abitanti, il sindaco è eletto a suffragio universale e diretto, contestualmente all’elezione del consiglio comunale”; l’art. 8 dispone che “Il Presidente della provincia è eletto a suffragio universale e diretto, contestualmente alle elezioni del consiglio provinciale. La circoscrizione per l’elezione del presidente della provincia coincide con il territorio provinciale”; l’art. 12 prescrive “1. All’art. 36 della legge 8 giugno 1990, n. 142, è premesso il seguente comma:

«01. Il sindaco e il presidente della provincia sono gli organi responsabili dell’amministrazione del comune e della provincia».

2. Il comma 1 dell’art. 36 della legge 8 giugno 1990, n. 142, è sostituito dal seguente:

«1. Il sindaco e il presidente della provincia rappresentano l’ente, convocano e presiedono la giunta, nonché il consiglio quando non è previsto il presidente del consiglio, e sovrintendono al funzionamento dei servizi e degli uffici e all’esecuzione degli atti»”; l’art. 16, comma II “il sindaco e il presidente della provincia nominano i componenti della giunta, tra cui un vicesindaco, e ne danno comunicazione al consiglio nella prima seduta successiva alla elezione unitamente alla proposta degli indirizzi generali di governo. Il consiglio discute ed approva in apposito documento gli indirizzi generali di governo”; particolarmente importante è l’art. 18, II comma che prevede “Il sindaco, il presidente della provincia e le rispettive giunte cessano dalla carica in caso di approvazione di una mozione di sfiducia votata per appello nominale dalla maggioranza assoluta dei componenti il consiglio. La mozione di sfiducia deve essere motivata e sottoscritta da almeno due quinti dei consiglieri assegnati e viene messa in discussione non prima di dieci giorni e non oltre trenta giorni dalla sua presentazione. Se la mozione viene approvata, si procede allo scioglimento del consiglio e alla nomina di un commissario ai sensi delle leggi vigenti (cfr. art. 20, comma 3°)” (anche qui è escluso che gli organi consiliari possano eleggerne uno nuovo o sostituirlo anche surrettiziamente).

Anche l’art. 20 di detta legge è illuminante “In caso di dimissioni, impedimento permanente, rimozione, decadenza o decesso del sindaco o del presidente della provincia, la giunta decade e si procede allo scioglimento del consiglio.

Il consiglio e la giunta rimangono in carica sino alla elezione del nuovo consiglio e del nuovo sindaco o presidente della provincia. Sino alle predette elezioni, le funzioni del sindaco e del presidente della provincia sono svolte, rispettivamente, dal vicesindaco e dal vicepresidente” (comma 1°); e al 4° comma “Lo scioglimento del consiglio comunale o provinciale determina in ogni caso la decadenza del sindaco o del presidente della provincia nonché delle rispettive giunte”. Nella legge suddetta è esplicitamente previsto, anche per il caso di dimissioni del Sindaco, la “reggenza” del vice, mentre per la Regione Lazio, no.

Anche per gli enti politici territoriali, con la variante della nomina del Commissario, è comunque escluso che si possa arrivare a prassi di sostituzione surrettizia del Presidente (attraverso un vicepresidente all’uopo designato), se non per il tempo strettamente necessario al rinnovo elettorale degli organi. L’unica differenza appare che, nel caso dei Comuni e delle Province, la “reggenza” dei “vice” comprende, diversamente dallo Statuto della Regione Lazio, anche il caso di dimissioni.

1.6 Deriva, anche dall’esame della legislazione elettorale (e ordinamentale) degli enti locali che nel “sistema delle autonomie” è stato attuato (almeno tendenzialmente per le Regioni) il sistema presidenziale ponendo organo consiliare e organo “governativo” in una situazione di sostanziale equilibrio, diversamente dal sistema assembleare-partitocratico in cui il rapporto tra corpo elettorale ed esecutivo era mediato dall’organo consiliare, per cui v’era una costruzione “a gradi” dell’ordinamento dell’Ente, con il corpo elettorale che sceglieva la rappresentanza consiliare e questa che sceglieva l’ “esecutivo”. Invece nel sistema attuale ambedue – Consiglio e Presidente (Sindaco) – sono eletti direttamente e un contrasto tra i due (o anche solo una vacatio) comporta che il corpo elettorale decida nuovamente (anche anticipatamente rispetto alla scadenza naturale), determinando il nuovo equilibrio col rieleggere gli organi; per cui, rispetto ai due organi “egualmente ordinati” è il corpo elettorale il “terzo superiore” con funzioni decisive, di risoluzione dell’impasse o della crisi (politica) dell’Ente.