lunedì 20 novembre 2017

La solidarietà come utopia necessaria in un libro di Stefano Rodotà, recensito da Teodoro Klitsche de la Grange

Stefano Rodotà, Solidarietà, un’utopia necessaria, Laterza Editore, Bari 2014, pp. 141, € 14,00.

In occasione della morte dell’autore, è stata distribuita nel circuito commerciale una nuova edizione di quest’opera, l’ultima di rilievo, pubblicata nel 2014.

Il giudizio che se ne riceve è che anche un giurista acuto come Rodotà se cede alle “idee-forza” della sinistra del XX secolo non riesce a cogliere l’essenza di ciò che indaga: nella specie, la solidarietà.

La quale è qua intesa come quell’insieme di rapporti sociali e relative regole che (deve) sussistere tra uomini, di guisa che il destino degli uni non sia indifferente agli altri, e in particolare fonda il dovere (pubblico) d’intervento per soccorrere i meno fortunati. Scrive l’autore  che, di fronte alle ostilità che suscita, la ragione della solidarietà “risiede nel suo essere un principio volto proprio a scardinare barriere, a congiungere, a esigere quasi il riconoscimento reciproco, e così a permettere la costruzione di legami sociali nella dimensione propria dell’universalismo. Di legami, si può aggiungere, fraterni, poiché la solidarietà si congiunge con la fraternità, in un gioco di rinvii linguistici che spinge verso radici comuni” (il corsivo è mio).

La solidarietà – sostiene l’autore – è un principio fondativo che “continuamente ci ricorda l’irriducibilità del mondo alla sola dimensione del mercato”. D’accordo: il mondo non è riducibile solo a quello. Ma lo è ad una dimensione non politica essenzialmente economico-sociale?

In realtà, se accompagnati dall’autore, si ripercorre il cammino che portò la solidarietà “giuridicizzata” a passare dallo stato “morale” a quello giuridico, la conclusione che se ne ricava è diversa da quella di Rodotà. Il quale, per l’ordinamento italiano ricorda in particolare la relazione del guardasigilli al codice civile del 1942, dov’è richiamata la solidarietà corporativa; e più ancora l’art. 2 della Costituzione italiana “con la connessione diretta istituita tra il riconoscimento e la garanzia dei diritti fondamentali e «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»”. Si noti la successione enunciata nella suddetta norma: la solidarietà è (1) politica (2) economica (3) sociale.

Se invece si va a leggere il seguito del saggio, Rodotà la declina come (1) fonte di doveri e diritti sociali, insistendovi molto (2) economici (trattandone abbastanza) (3) e (per nulla) politici. La “scala” è inversa rispetto alla disposizione costituzionale cennata. Intendendo come politico non tanto il dovere di assicurare i mezzi per il godimento di diritti “solidaristici” a carattere economico e sociale, ma quale condizione d’esistenza e vitalità dell’istituzione (e quindi del potere) e disciplina dei relativi doveri (e diritti).

Perché a differenza dei principi dell’89 di libertà ed eguaglianza, cui la solidarietà, per la stretta parentela alla fratellanza, è connessa, c’è una differenza fondamentale. Infatti libertà (nel senso dello Stato borghese, cioè con garanzia dei diritti fondamentali e della distinzione dei poteri) ed eguaglianza non connotano tutti i tipi e forme di Stato, ma solo una parte, e solo nella modernità, Di Stati (o meglio di sintesi politiche) in cui la libertà interessasse poco o punto (dai dispotismi “idraulici” ai totalitarismi del XIX secolo), come, del pari, l’eguaglianza (praticamente tutte le aristocrazie e gran parte delle monarchie), ne sono esistiti tanti nella storia; ma di sintesi politiche senza solidarietà politica (e in qualche misura, anche se modesta, economica e sociale) non ce n’è nessuna vitale (ossia in grado di durare almeno uno – due decenni). La solidarietà politica, menzionata quale principio fondamentale è prima che tale, una condizione di esistenza e soprattutto di vitalità dell’ordinamento. Essere solidali significa, per tutti, più che destinare ai meno fortunati parte del proprio reddito, essere disposti a sacrificare la vita (art. 52 Costituzione) per difendere quella dei propri concittadini e l’esistenza della comunità. Per i governanti di assicurare protezione ai governati; per questi obbedienza a quelli. Hobbes, nelle ultime pagine del Leviathan, sosteneva di aver esposto la mutua relazione tra protezione ed obbedienza: che è il primo (e più importante) aspetto della solidarietà politica, quello che fonda la solidità della sintesi politica.

Infatti se la protezione viene meno, come scriveva il filosofo di Malmesbury, viene meno anche il dovere di obbedienza (e viceversa). E Miglio, scrivendo dell’obbligazione politica ricorda “non solo i seguaci debbono essere fedeli ai capi ma si chiede anche che i capi stiano con i seguaci nella buona e nell’avversa sorte”.

È difficile pensare che possa durare e quindi essere vitale un regime politico in cui il governante programmi di vendere i sudditi un “tanto ‘er mazzo” come il Re di Belli: un assetto predatorio totale – che è l’inverso di quello solidaristico - è un regime di breve durata. Il tempo di un’invasione o di un’occupazione militare. Ma dato che è insito nel concetto d’istituzione (e di costituzione) quello di durata, non è possibile un regime politico vitale senza un cero “tasso” di solidarietà.

Proprio la Costituzione italiana ce lo ricorda. Con il dovere di solidarietà dell’art. 2, articolato in doveri richiamati specificamente in obblighi normativamente previsti (v. artt. 52-53-54). E la stessa costituzione li disciplina sia riconoscendone il carattere politico sia collocandoli nella parte I (diritti e doveri dei cittadini), anche se alcuni di quei doveri sono osservandi anche dai non cittadini. Dovere di difesa, obbligo di pagamento delle imposte, dovere di fedeltà alla Repubblica e alle leggi: tutte articolazioni (anche) della solidarietà – e non solo – senza le quali non è possibile concepire un’istituzione politica durevole dove la protezione corrisponda all’obbedienza.

Profilo che, ad onta della straordinaria bellezza che la sinistra riconosce alla Costituzione vigente, proprio il pensiero dominante progressista di questo lungo autunno della Repubblica ha smarrito.

Nel libro di Rodotà si parla infatti di solidarietà in relazione ai matrimoni tra omosessuali, agli uteri in affitto, e soprattutto in rapporto alle differenze economiche e sociali ed alla necessità di ridurle. Su tutto si può – in parte – concordare, e più ancora sull’esigenza di non mercificare i rapporti umani praeter necessitatem. Ma ciò comunque offre una rappresentazione non tanto errata, quanto limitata e parziale della solidarietà. Oltretutto dimenticandone il carattere politico si confonde la dicotomia, fondamentale nel diritto postrivoluzionario, tra diritti dell’uomo e del cittadino. I quali non sono gli stessi e cui non corrispondono il/i medesimo/i dovere/i di solidarietà. A partire da quello di protezione – e relativa difesa – riconosciuta, almeno a partire dalla seconda Scolastica, ai governanti per i diritti della comunità e dei cittadini governati, ma insussistente per i diritti dei non-cittadini; come scriveva Francisco Suarez, stigmatizzando il carattere dis-ordinatorio e bellogeno delle pretese di tutelare diritti di non appartenenti alla comunità (v. oggi le guerre per i diritti umani).

Se quindi la solidarietà politica è dovere essenzialmente nei confronti (e tra) cittadini, verso i non-cittadini non lo è, o lo è in misura enormemente inferiore e diversa. Nel primo caso la solidarietà è componente del rapporto di amicizia (nel senso dell’amicus-hostis schmittiano) nel secondo sulla comune umanità, e ovviamente è più sfumata e comunque diversa.L’appartenenza alla comunità e quindi la soggezione all’istituzione politica in cui è organizzata.
 
Teodoro Klitsche de la Grange
                                                                  
                                                                 

Il Principe di Gaetano Mosca, recensito da Teodoro Klitsche de la Grange


Gaetano Mosca, Il Principe di Machiavelli, Ed. Il Foglio, Piombino 2017, pp. 103, € 12,00.

Ottima idea questa, di una nuova edizione nella collana “Biblioteca di scienze politiche e sociali”, diretta da Carlo Gambescia e da Jeronimo Molina Cano, del saggio di Gaetano Mosca sul “Principe di Machiavelli” pubblicato (in italiano) nel 1927, in questo volume preceduto da un attento saggio dello stesso Gambescia.

Leggere “il padre nobile” del realismo nelle scienze politiche (e umane), interpretato da uno dei suoi epigoni più brillanti del secolo scorso è sicuramente di grande interesse.

Scrive Gambescia che “Mosca, da scienziato sociale, quindi come ricercatore di costanti, si pone subito due questioni. La sua analisi, sia detto per inciso, va oltre il Principe, per abbracciare l’intero pensiero del Segretario.

La prima: se Machiavelli «può essere considerato come il fondatore, o almeno il precursore, di una vera scienza politica, come colui che, dopo Aristotele, ha per primo enunciato alcuni canoni fondamentali sulla natura politica dell’uomo, ossia sulle tendenze costanti ed indistruttibili che in ogni società umana politicamente organizzata possono riscontrarsi».

La seconda: «Vedere quanto meno se egli è riuscito a formulare una serie di precetti che possono servire come una buona guida pratica agli uomini politici di tutti i tempio e di tutti i luoghi»”; dopo aver tolto di mezzo la questione dell’immoralità del Principe, Mosca si interroga sul Machiavelli fondatore della scienza politica. La sua risposta è negativa: «Machiavelli ebbe senza dubbio due intuizioni felicissime, anzi per i tempi in cui scrisse veramente geniali; egli cioè comprese che la spiegazione della prosperità e della decadenza degli organismi politici va ricercata nell’esame delle loro vicende, e perciò nella storia del loro passato, e comprese pure che, in tutti i popoli arrivati ad un certo grado di civiltà, si possono riscontrare alcune tendenze politiche generali e costanti».

Tuttavia «quando egli scrisse il Principe ed anche i Discorsi, l’indagine e la critica storica erano nell’infanzia»; per cui “non creò una scienza politica perché gli faceva difetto i materiali per costruirla ed anche per gettarne le fondamenta e perciò si limitò, ed altro non poteva fare, a tracciare alcune delle linee sulle quali l’edificio potea sorgere ed a gettarne la prima pietra. Se fosse nato almeno quattro secoli dopo avrebbe probabilmente saputo innalzare qualcuno dei muri maestri”.

Quanto all’altra questione, Mosca da anche qui, da un giudizio negativo, un po’ perché giudica Machiavelli “libresco”; in altre ingenuo (così nell’applicazione ai giorni suoi ed all’Italia delle Signorie di soluzioni adatte a quelli di Scipione ed alla Roma repubblicana); onde Gambescia conclude il proprio saggio introduttivo “gli aspetti deboli dell’approccio machiavelliano, dal punto di vista della tripartizione dell’euristica moschiana, sono nell’ordine”: a) l’enfatizzazione del ruolo (singolo) del capo; che a un teorico della classe politica come il costituzionalista siciliano appariva enfatizzato (ed errato); b) la sottovalutazione della “formula politica” come insieme di credenze ed ethos condiviso, anch’esso determinante nelle comunità politiche per Mosca; c) la scarsa o nulla attenzione che il Segretario fiorentino ha per la difesa giuridica, come “prevalere della legge e degli ordini pubblici sull’appetito degli uomini”. Termina Gambescia che “siamo dinanzi, non soltanto a ermeneutiche diverse, ma a due forme differenti di realismo politico”: ma il pensiero di Machiavelli, dei più scientifici e, quindi, neutrali (nel senso di Werthfrei).

Mosca, è così, in parte, critico di Machiavelli, e da atto che “per quel che riguarda la creazione della scienza politica, Machiavelli ebbe senza dubbio due intuizioni felicissime, anche per i tempi in cui scrisse veramente geniali”, che sono quelle evidenziate (e sopra trascritte) nel saggio di Gambescia; ciò che in altri termini significa che la natura politica dell’uomo presenta in tutti i tempi ed in tutti i luoghi una certa identità. Bisogna riconoscere che è “impossibile costruire una vera scienza politica sopra basi diverse da quelle testé accennate, come sarebbe stato impossibile di costruire un’economia politica scientifica e trovare le vere cause della prosperità economica o della povertà delle nazioni se, a cominciare dalla fine  del secolo decimottavo, gli economisti non avessero fondato le loro deduzioni sopra premesse analoghe sa quelle dalle quali Machiavelli volea partire per insegnare ai Principi”. Proprio perché quella convinzione era condivisa ed il lavoro già avviato, sia nella pratica che nella teoria, Adam Smith poté scrivere la “Ricchezza delle Nazioni”… “ai suoi tempi il passato ed il presente di parecchie nazioni europee gli fornivano già una quantità di esperienze economiche di fatti accertati e di nozioni precise che erano sufficienti a dargli un’idea  chiara delle leggi, ossia delle tendenze costanti, alle quali l’attività economica dell’uomo generalmente si conformava e si conforma. Lo stesso non potea fare Machiavelli, perché, quando egli scrisse il Principe ed anche i Discorsi, l’indagine e la critica storica erano nell’infanzia, anzi forse non erano neppure nate”. Quindi Machiavelli “non creò una scienza politica perché gli facevano difetto i materiali per costruirla”.

E nel concludere il saggio Mosca spiega la fortuna - che dura da cinque secoli – dell’opera di Machiavelli “Perché quest’uomo che pretese di insegnare ai suoi simili le arti dell’inganno, fu come scrittore uno dei più sinceri che mai siano stati al mondo. Quella che è l’onestà professionale dello scrittore, la quale consiste nell’esporre al lettore il vero pensiero di colui che scrive senza curarsi del successo o dell’insuccesso del libro, egli la possedette in grado eccezionale. E questa volta la sincerità ebbe fortuna, perché molto contribuì a far gustare il contenuto del Principe.

Machiavelli infine che fu onesto… volle dettare le regole dell’arte d’ingannare e di ciò che ora si chiamerebbe alto arrivismo. Non era il suo mestiere; se fosse stato davvero furbo ed un arrivista avrebbe, dato il suo ingegno, fatto una carriera assai più brillante, non sarebbe morto povero e si sarebbe ben guardato dallo scrivere il Principe. Giacché i veri furbi di tutti i tempi e di tutti i paesi sanno benissimo che la prima regola della loro arte consiste nel non rivelare agli altri i segreti del proprio giuoco”.

Ma di quei furbi nessuno conserva il ricordo mentre: a Machiavelli da secoli è riconosciuto di aver meritato il suo epitaffio: tanto nomini nullum par elogium.
Teodoro Klitsche de la Grange

sabato 11 novembre 2017

I rabbini di Neturei Karta a Roma, in conferenza presso il centro di cultura islamica Imam Mahdi

È deplorevole che all'evento nin venga dato il rilievo mediatico che avrebbe meritato, ma non vi è di che stupirsi. In Roma non vi si può svolgere nulla che sia sgradito alla comunità ebraica, forte di 10 mila persone su una popolazione romana di tre milioni di abitanti. I casi di censura e di negazione della sala dopo intervento ebraico sono innumerevoli e sarebbe istruttivo tenerne un registro completo. Lunedi, presso l’Associazione Islamica Imam Mahdi vi sarà una conferenza dei rabbini di International Neturei Karta. Appare difficile immaginare che possano anche forzare il centro islamico romano, come è avvenuto per sedi universitarie, centri culturali, librerie. Nello scorso anno si era addirittura tentato di impedire la presentazione di un libro, il primo volume della Storia del Sionismo di Alan Hart, in una sala, pagata, della Fiera romana del libro. Questo articolo è costituito oltre che da questa Prefazione introduttiva, di due parti. La prima ripresa da una testata cristiana sionista, che con un suo commento ha riportato il testo di Neturei Karta, ripreso dal blog di Maurizio Blondet, che salvo non sia un mio proprio problema tecnico, non si riesce più a leggere nel sito originale: sabotaggio del Mossad? Ho avvisato il centro culturale islamico del sospetto aceraggio o sabotaggio della pagina di “Islamshia”, da cui è stato tratto il testo originale sotto riportato di terza mano, non potendo io accedere al sito originale.

 La seconda parte consiste invece nelle mie impressioni sorte in seguito alla conferenza in Roma del Rabbi Yisroel Dovid Weiss, alla quale ho assistito. Ho potuto fare una domanda proprio riguardo alle critiche di provenienza cristiano-sionista, di cui sotto, e ne ho avuto risposta, che riporto nella parte seconda. Il testo in carattere courier è della redazione cristiano-sionista di “Notizie su Israele”. Il sito americano di Neturei Karta lo si trova all'indirizzo www.nkusa.org, dove si trovano anche i documenti che sono stati illustrati nel corso della conferenza romana. Vi è già stata una prima conferenza il 9 novembre a Cesena, di cui è già disponibile il video You Tube. Anche per Roma, lunedi 13 è stata fatta la video registrazione, e credo seguirà a breve.

CL
(post in elaborazione)

I. 
NETUREI KARTA EDITO DA “NOTIZIE SU ISRAELE”,
RASSEGNA STAMPA CRISTIANO-SIONISTA O EVANGELICA

Neturei Karta intervistato da "Islamshia"

Riportiamo questo articolo da un blog dichiaratamente antisionista. Si tratta di un'intervista a un noto, piccolo gruppo ebraico che per motivi religiosi si schiera appassionatamente contro lo Stato d'Israele. Non ignoriamo o sottovalutiamo questa posizione; riteniamo anzi utile renderla nota affinché chi legge possa valutarla e dire se è d'accordo o no. E perché. NsI

D. E' vero che i Neturei Karta appoggiano la sovranità palestinese su tutta la Terra Santa?

R. La nostra risposta è inequivocabilmente Si. Comunque la risposta ha bisogno di qualche precisazione. Noi siamo un'organizzazione ortodossa antisionista: la nostra opposizione al sionismo si articola su vari livelli.
1) L'ideologia sionista costituisce una trasformazione dell'ebraismo da religione e spiritualità a nazionalismo e materialismo.
2) Il sionismo si è macchiato di gravi colpe nel trattamento del popolo palestinese.
3) L'Onnipotente ci ha espressamente proibito di ricreare la nostra identità nazionale durante questo nostro esilio da Lui ordinato.
4) La creazione di uno stato in Palestina nega la natura Divina della punizione dell'esilio del popolo ebraico e cerca di porre rimedio a una condizione spirituale con mezzi materiali.
5) Il sionismo ha dedicato molte delle sue energie a sradicare la tradizionale fede ebraica.

D. Qual è la vostra posizione?
R. Noi chiediamo, senza compromessi, lo smantellamento pacifico dello Stato di "Israele". La decisione di permettere o meno agli Ebrei di rimanere in Terra Santa dopo la conclusione di tale processo di smantellamento dipende interamente dai leader e dal popolo palestinese.

D. Non temete le possibili conseguenze per gli Ebrei che vivono in Terra Santa?
R. In realtà, noi temiamo di più per gli Ebrei che si trovano nella condizione attuale, una condizione senza speranza. Dopo quasi settant'anni, numerose guerre, continue azioni terroristiche e antiterroristiche, con la morte di civili innocenti da ambo le parti, non c'è alcuna soluzione in vista. Sia la destra che la sinistra israeliana hanno miseramente fallito nel loro tentativo di correggere questa situazione. Noi offriamo un'alternativa a quello che si è rivelato un tragico esperimento.

D. Ma, gli Ebrei non hanno diritto a una loro patria?
R. Nessun Ebreo fedele alla propria religione ha mai creduto, nei 1900 anni di esilio del nostro popolo, di doversi riprendere la Terra con un'azione militare. Tutti hanno creduto invece che, alla fine dei tempi, quando il Creatore deciderà di redimere l'umanità intera, allora tutti i popoli si uniranno per adorarLo. Sarà quello un periodo di fratellanza universale, che avrà il suo centro spirituale nella Terra Santa. Fino a quel momento il popolo ebraico ha un particolare compito durante l'esilio.

D. E qual è tale compito?
R. Accettare con fede il proprio esilio e, nelle parole e nei fatti, agire in modo da diventare modello di comportamento etico e di spiritualità, e il tutto con atteggiamento semplice ed umile. In altre parole, compiere la volontà dell'Onnipotente attraverso lo studio della Torah, la preghiera e un comportamento retto.

D. Come vedete il popolo palestinese?
R. E' la vittima della cecità morale del movimento sionista e del suo rifiuto ostinato di prendere in considerazione l'esistenza di altri popoli. I Palestinesi hanno diritto alla propria patria. E hanno diritto a un risarcimento finanziario per tutti i danni e le perdite subite negli ultimi decenni.

D. Quali sono state le vostre azioni in tale ambito?
R. Con l'aiuto dell'Onnipotente, noi spesso pubblichiamo dichiarazioni a sostegno di rivendicazioni palestinesi e in solidarietà con Ie loro sofferenze. Noi ci siamo uniti ai Palestinesi in proteste contro le violenze e gli abusi di cui sono stati vittime. Abbiamo cercato in genere di mantenere una presenza pubblica sia nel mondo ebraico che in quello islamico cosicché la venerabile tradizione ebraica di una opposizione religiosa al sionismo non fosse dimenticata. Per questo noi speriamo che, con l'aiuto dell'Eterno, la millenaria via della Torah possa ancora una volta prevalere in un futuro non lontano.

D. Cosa pensate dei negoziati di pace, Annapolis, Road Map, accordi di Oslo e simili tentativi?
R. Ogni sostegno per le sofferenze del popolo palestinese costituisce una piccolo vittoria ed è prova di una coscienza morale che ogni Ebreo dovrebbe avere. Tutti questi tentativi comunque, seppure dettati da buone intenzioni, sono destinati a fallire, in quanto agli Ebrei è proibito esercitare una sovranità politica sulla Terra Santa.
  Compito degli Ebrei è cercare la pace con tutti i popoli e non esercitare oppressione su nessun essere umano. Per tutte queste ragioni gli Ebrei sono obbligati a reintegrare i diritti dei Palestinesi e liberare la Palestina tutta. L'impresa sionista è destinata - a livello metafisico - a fallire sia sul piano morale che su quello pratico.

D. Quale dovrebbe essere l'atteggiamento ebraico nei confronti del mondo islamico?
R. Gli Ebrei debbono comportarsi in modo onesto e umano verso tutti i popoli. Il sionismo ha indotto molti Ebrei ad atti di aggressione contro il popolo palestinese. E' pertanto compito di tutti gli Ebrei correggere per quanto possibile questa situazione cercando la pace, la riconciliazione e il dialogo con il popolo palestinese e con il mondo islamico in genere. Questa è una delle grandi sfide spirituali del popolo ebraico: stabilire un rapporto morale con i propri fratelli musulmani.

D. Realisticamente parlando, pensate che il vostro programma sia realizzabile?
R. Per prima cosa va detto che il Creatore governa questo nostro mondo: a Lui tutto è possible e verità e giustizia alla fine prevarranno.
  Secondo, esiste un profondo senso di disillusione e stanchezza fra gli Ebrei di tutto il mondo riguardo allo Stato d'Israele e al sionismo in generale. Molti si rendono conto che seguire i principi del sionismo porta a un vicolo cieco dopo l'altro. Si desidera una diversa soluzione. La nostra soluzione, che si fonda sull'antica tradizione ebraica, appare sempre più plausibile a molti e può, in un futuro non lontano - e con l'aiuto dell'Eterno - rivelarsi la soluzione decisiva.
  Fino a quel momento noi speriamo e preghiamo che non ci siano altri spargimenti di sangue, né tra gli Ebrei, né tra gli Arabi. Aspettiamo ansiosamente il giorno in cui molti arriveranno a comprendere che la via per la pace si trova nel ritorno del popolo ebraico alla propria missione nell'esilio, cioè servire l'Eterno e vivere con integrità ed onestà. Sarà quello il giorno in cui si realizzerà finalmente il sogno espresso nelle nostre preghiere: "Tutte le nazioni si uniranno per compiere il Tuo volere nell'integrità dei loro intenti" E, nelle parole del Salmista, (102: 23) "Nazioni e governi si uniranno per servire l'Onnipotente." Possa ciò accadere presto, durante le nostre vite. Amen.
  NKI è un Ente Morale (non-profit) ebraico religioso, impegnato a pubblicizzare le posizioni antisioniste degli Ebrei ortodossi di tutto il mondo, i quali si oppongono fermamente allo Stato d'Israele e alle sue azioni. I NKI viaggiano per il mondo allo scopo di partecipare a manifestazioni e conferenze, al fine di parlare in varie occasioni sulla opposizione di sionismo ed ebraismo. I portavoce dei NKI sono disponibili a parlare a convegni e presso università di tutto il mondo, come pure ad essere intervistati alla radio o alla televisione.

(Blog Maurizio Blondet, 8 novembre 2017, trad. Massimo Mandolini Pesaresi)


*

Presa di posizione sullo Stato d’Israele

    Il popolo ebraico costituisce una nazione per un'esplicita volontà di Dio che non si è modificata con il tempo.
    L'attuale Stato d'Israele, costituito sulla sua terra, non è il regno messianico promesso a Davide, ma esprime la precisa volontà di Dio di costituirlo in un futuro più o meno prossimo.
    Dio non si aspetta che gli uomini edifichino il suo regno con le proprie mani, ma vuole verificare quale posizione ciascuno prende davanti alla manifestazione della sua volontà.
    Con una serie di prodigi che possono soltanto essere chiamati miracoli, Dio ha fatto in modo che si ricostituisse sulla terra d'Israele la nazione ebraica.
    Anche se per la ricostituzione di questa nazione Dio ha usato la sua potente autorità, ha voluto tuttavia che la fondazione dello Stato d'Israele avvenisse secondo gli usuali criteri di giustizia umana usati dalle nazioni affinché fosse evidente che chi vi si oppone è un ingiusto che vuole "soffocare la verità con l'ingiustizia" (Romani 1:18).
    Dio ama tutti gli uomini, ma la Scrittura rivela che esiste una successione storica temporale che non può essere trascurata: Dio ama "prima il giudeo, poi il greco" (Romani 1:16), prima Israele, poi le altre nazioni, proprio come ogni uomo moralmente sano ama prima sua moglie, poi tutti gli altri. Si dovrebbe diffidare di chi dice di amare tanto il prossimo ma mostra di non essere capace di amare sua moglie.
    Per il gentile che ha ottenuto il perdono dei suoi peccati credendo in Gesù come Signore e Salvatore, è - o dovrebbe essere - del tutto naturale sentirsi dalla parte d'Israele e schierarsi in sua difesa.
    Poiché Gesù continua ad amare Israele e aspetta il momento di "ricondurre a Dio Giacobbe" (Isaia 49:5) , la comunione spirituale con Lui provoca - o dovrebbe provocare - sentimenti di solidarietà e particolare amore per i membri di quel popolo, indipendentemente da come reagiscono davanti alla testimonianza del Vangelo.
    I veri credenti in Gesù devono aspettarsi, e accettare serenamente come parte del loro servizio di testimonianza, eventuali manifestazioni di anticristianesimo ebraico, ma devono essere del tutto intolleranti davanti a ogni forma di antisemitismo cristiano.
    Il concetto di nazione ebraica è fondato giuridicamente sull'atto costitutivo della promessa di Dio fatta ad Abramo e costituisce un elemento fondamentale a sostegno dell'esistenza e dell'identità del popolo ebraico.
    L'antisionismo, presentandosi come negazione del diritto degli ebrei ad avere una loro nazionalità, costituisce l'ultima forma di odio antiebraico. Il suo nome potrebbe essere "antisemitismo giuridico". Dopo l'antisemitismo teologico pseudocristiano e l'antisemitismo biologico pagano, quest'ultimo tipo di antisemitismo ha tutte le caratteristiche per diventare più esteso, più radicale, più viscido, e di conseguenza più pericoloso di tutti gli altri.

II.
CRITICA AL CRISTIANO-SIONISNO
in lingua italiana
(Notizie su Israele, redatte da Marcello Cicchese)

Mi pare inutile che io riassuma il contenuto della conferenza, con rischio di inesattezze, quando lo si può ben leggere nell'articolo che ne riassume i temi e nella video registrazione che si è tenuta già a Cesena ed il cui contenuto penso sarà eguale a quello della conferenza tenuta a Roma, di cui credo seguirà pure la video registrazione. Potrà essere utile vedere ed ascoltare entrambi le video registrazioni che sono state tradotte da un interprete. Io non ho ancora visto la video registrazione di Cesena, mentre ero di persona presente alla conferenza romana, che è stata preceduta da due presentazione. Ha parlato per prima un dotto teologo sciita, Hujjatulislam E. Emani,  in persiano, tradotto da una giovane donna che ho visto in altre circostanze simili.  Ho già ascoltato altre conferenze di Emani e ne ho apprezzato la dottrina. Ha poi parlato come portavoce della Comunità palestinese di Roma e del Lazio Salameh Ashour, che ormai incontro spesso e possiamo dirci amici. Ha parlato in un ottimo italiano dando un quadro generale della questione palestinese. È stato un intervento un poco lungo. La parte più interessante è stata forse quella che esprime la posizione morale dei palestinesi. È stata data quindi la parola al rabbino Rabbino anziano, mentre il più giovane curava la video registrazione. Io gli ero seduto accanto.

Verso il termine della conferenza il Rabbi si è dichiarato disponibile a ulteriori contatti, ed ha messo a disposizione il suo biglietto di visita. Ne ho appena approfittato scrivendogli questa lettera:

Caro Rabbi,
sono molto lieto di aver ascoltato la sua conferenza, che mi ha chiarito da un punto di vista teologico questioni che erano rimaste in me ancora aperte nel rapporto fra il “vero” ebraismo e quello che conosco in Roma per la presenza di una “comunità ebraica” di poche migliaia di persone che però hanno una influenza impressionante in una città di tre milioni di abitanti.

Ho capito grazie alla sua conferenza che il “vero” giudaismo, in quanto religione, è il suo, non quello che mi giunge dagli organi di stampa e descrive l'ebraismo romano ed italiano, tutto schiacciato sullo stato di Israele. La sua conferenza mi ha anche pacificato l'animo riguardo una certa mia avversione a un ebraismo tutto intriso e corrotto dal sionismo, che secondo la concezione di Gilad Atzmon è niente altro che una forma di primatismo razziale a carattere globale.

Sono uno spirito liberale ed ho pieno ed assoluto rispetto per ogni religione esistente e praticata in quanto religione. Se invece una religione tradisce la sua natura spirituale ed assume forma politica, non posso non assumere anche io una posizione politica, quella che meglio risponde ai miei interessi e alla mia identità.

Mi scuso se le scrivo in italiano, ma si tratta di concetti dove è bene essere precisi.

Le mie riflessioni sulla conferenza di lunedi a Roma, e sull'altra di Cesena che ascolterò in videoregistrazione, le potrà trovare in questo mio post:

https://civiumlibertas.blogspot.it/2017/11/i-rabbini-di-neturei-karta-roma-in.html
Ed in quest'altro dove replico a un libercolo sionista che in una sua pagina mi chiama in causa:
https://civiumlibertas.blogspot.it/2017/07/disamina-fuori-dal-coro-di-un-libercolo.html

Sono testi complessi ancora in elaborazione, dove ritorno di tanto in tanto quando ho tempo, o sopraggiunge una nuova idea, una nuova informazione.

Spero che ritorniate altre volte in Roma. Ci sarò sempre ad ascoltarvi...

Devo infine precisare: sono un filosofo, non particolarmente religioso, ma comunque cattolico battezzato e cresimato, e con poca e scarsa conoscenza del mondo ebraico, vorrei anche aggiungere: nessun interesse. Mi stupisco però che il Papa non abbia ricevuto voi e vada invece ogni anno a fare visita al rabbino di Roma, che dopo aver sentito lei, caro Rabbi, mi appare in una luce alquanto diversa, più legato alla politica che non alla religione. Si leggono oggi i necrologi di un rabbino italiano a cui viene attribuito un importante ruolo nel «dialogo ebraico-cristiano». Da cattolico e filosofo insorgo: non con lui doveva essere avviato il supposto “dialogo”, ma con voi che più autenticamente rappresentate la spiritualità ebraica. È assai eloquente come lei abbia potuto tenere in Roma la sua conferenza non nella Sinagoga, o in uno dei suoi numerosi e lussuosi centri, ma in un centro islamico, di quell'islam che la propaganda sionista vuole mettere in guerra con il mondo cristiano e cattolico.

Cordialmente e con spirito di amicizia e di pace

Antonio Caracciolo
 
Al termine della conferenza, essendo rimasto poco tempo per eventuale domande, sono stato svelto ad alzare per primo la mano.

(segue)