lunedì 23 novembre 2015

25. Letture: Martin HEIDEGGER: Quaderni neri 1931/1938 [Riflessioni II-VI], Bompiani 2011. - Annotazioni in margine a un convegno in corso

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È uscito, in traduzione italiana, nello scorso ottobre un volume di cui molto si è discusso e polemizzato, almeno dentro la cerchia delle persone non solo interessate alla filosofia, ma al quadro politico culturale uscite dalla secondo guerra mondiale. Giova ricordare che Martin Heidegger è nato nel 1889 e morto nel 1976. Ho comprato il volume direttamente al convegno che si è tenuto oggi al CNR, in Roma, nei pressi dell’Università La Sapienza. Dirò qualcosa, ma solo qualcosa sul convegno, nelle misura in cui se ne può dire qualcosa. Update: in intervento di Angelo Bolaffi, ebreo, sul convegno heideggeriano di una curatrice, ebrea e sionista ma la cui carriera accademico qualcosa deve alla sua occupazione heideggeriana. È divertente la faida interna al mondo ebraico in relazione alla filosofia di un grande filosofo, piaccia o non piaccia, come Heidegger: ci riserviamo a dopo una più attenta lettura dell’intervento di Bolaffi. Se Heidegger era per davvero - e a noi interessa poco - “nazista” e “antisemita” - ma sarebbe interessante una buona volta sapere cosa significa -, il problema non è di Heidegger ma di quelli che si professano “filosofi” o pensano di avere un qualche rapporto con la “filosofia” e soprattutto con la libertà di pensiero e quindi di poter filosofare. Se nel loro tempo Heidegger, Schmitt, Jünger - le tre stelle più brillanti del firmamento - pensarono di aderire, almeno nel 1933-36, al nazismo, non resta che prenderne atto e considerare più seriamente le ragioni di un diffuso e qualificato consenso ad un regime che succedeva allo sfasciume di Weimar. Non pare che sia intelligente risolvere la questione dicendo che le stelle non erano stelle ma tremolanti ed effimeri lumini.

Del resto, la questione di quale fosse il tipo di nazismo di Heidegger, se “spirituale” o non spirituale, o anche quello di Schmitt, o il tipo di fascismo di Evola, il problema che emerge chiaramente è che all’interno di un qualsiasi movimento o partito politico vi è sempre dibattito sulla auto-definizione o sulla caratterizzazione che nei fatti il Movimento o il Partito ha o che se ne vuole dare. Esistono perciò tanti “nazismi”, “fascismi”, “comunismi”, “socialismi”, ecc., quanti se ne vogliono teorizzare. Altra questione è la concreta prassi di un movimento in una precisa epoca storica e in un determinato Paese. Ma ecco che il problema diventa di natura prettamente storica se il dato movimento ha cessato di esistere. Se però di questo cessato movimento si vuol fare demonologia e non storia, gli “studiosi” dimostrano di essere condizionati dalla ideologia e dal regime del loro tempo presente non meno pesantemente di quanto Heidegger, Schmitt, Jünger non lo fossero nel loro tempo e nel loro Paese. Quanto poi all’«antisemitismo» è utile ricordare che il termine nel XIX sec. aveva un significato diverso da quello odierno. Allora era perfino possibile costituire apposite Associazioni e Circoli Antisemiti fin nell’intestazione. Oggi sarebbe un reato penale. Ma allora era una situazione giuridica creata dalla rivoluzione francese con l’equiparazione e assimilazione degli ebrei nella restante società. Se ne occupò già Marx nella sua “Questione ebraica”. La propaganda odierna, di matrice israeliana, tende poi a confondere tre fenomeni assolutamente distinti, concettualmente e cronologicamente: l’antigiudaismo di natura prevalentemente teologico, l’antigiudaismo di natura giuridica e l’antisionismo di natura politica. Mescolando, diventano antisemiti Dante Alighieri e San Francesco d’Assisi. Ed i Vangeli stessi sono da bandire in quanto testi antisemiti...

I convegni accademici hanno loro peculiari gestazioni che qui non interessa investigare. Sembra volersi dire che si coglie occasione dell’uscita dei discussi «Quaderni neri» per una considerazione dell’intera sterminata opera di Heideger in circa 100 volumi editi. È però un fatto che l’input sia stato dato e tuttavia sia dato dal presunto o scontato “antisemitismo” del filosofo tedesco nonché della sua acclarata adesione al nazionalsocialismo. A mio avviso, si tratta di banali pregiudizi che testimoniano se mai della mancanza di libertà intellettuale e spirituale degli “specialisti” che accademicamente parlando hanno campato e campano sui suddetti 100 volumi, che per quanto ci riguarda disperiamo di riuscire a leggere tutti, trascurando interpreti e Sekundärliteratur. Senza poi contare una fortissima pressione esterna di carattere interamente politico. Non per nulla la curatrice del Convegno, una pasionaria del sionismo, si trova sotto attacco dei suoi sodali sionisti, che non vanno tanto per il sottile e le rimproverano una sostanziale e clamorosa ambiguità, che anche noi per altri versi rileviamo. Ci chiediamo, infatti, se la stessa oggi non manderebbe in carcere proprio Martin Heidegger per il reato di manifestazione del pensiero, o meglio di un pensiero non ammesso, non consentito. L’Autore è però morto nel 1976 e non corre di questi rischi, a meno di non volergli fare un processo post mortem come ai tempi di papa Formoso.

Il convegno è su Martin Heidegger, ma Carl Schmitt è subito avvertito come il convitato di pietra... Iniziali citazioni piuttosto fumose, riprese da un volume edito da Taubes (Der Fürst dieser Welt. Carl Schmitt und die Folgen), ma poi nell’ultima relazione della Sessione viene saltata la parte su Carl Schmitt per indugiare oltre ogni senso su un personaggio di Musil, Meingast ma in realtà L. Klages (1872-1956), del quale pare si sia occupato l’Ufficio di Rosenberg, che pure si era interessato nel gennaio del 1937 di Carl Schmitt, con un ciclostilato di 14 pagine, dove veniva passata in rassegna tutta la produzione di Carl Schmitt per pronunciarne infine la “scomunica” dal punto di vista dell’ortodossia nazista, che Rosemberg stesso riteneva di rappresentare... Avevo tentato una domanda su questa curiosa economia di trattazione, ma la mia alzata di mano non è stata accolta... Senza disarmare, a “evento” pomeridiano concluso, mi avvicino al Relatore per chiedere conto della omissione e soprattutto se aveva cognizione di un documento dell’Ufficio di Rosenberg proprio su Carl Schmitt... La mia sensazione è stata che ne ignorasse l’esistenza e alla mia offerta di portaglielo ha declinato: “no, non ne voglio più sapere di questa roba...”. Mah! Questo il grande convegno “scientifico”... Ritornerò mercoledi mattina, per sentire Gianni Vattimo, ed avere con lui qualche scambio di idee, in margine al convegno stesso, se possibile. Infine, una nota sulla curatrice, alla quale rivolgo una domanda pubblica: Non trova Ella, Illustre Signora, una qualche incoerenza con la sua professione di “filosofa” e la sua posizione sulla legge “antinegazionista” con la quale anche in Italia si vuole mandare in galera persone che hanno la sola colpa di pensarla diversamente sa lei in materia di libertà di pensiero, di ricerca, di insegnamento... Le cui “opinioni” – senza nessunissima altra fattispecie concreta di reato – vengono da lei rubricate a “reati”? Prendendo la tradizione filosofica “occidentale” da Talete in poi, come può un “filosofo” negare ad altri la “libertà” del “pensare”? Non mi dichiaro conoscitore professionale di Heidegger, ma in Heidegger si trova una simile illiberalità? Ed Heidegger stesso con le leggi vigenti in Germania non sarebbe oggi compagno di cella di un certo Horst mahler, che sconta 12 anni di carcere per aver scritto un... libro?

In realtà, l’uscita del “Quaderni Neri”, a 40 anni dalla morte del suo Autore, deve aver scatenato una faida interna fra i cultori professionali di Martin Heidegger, schiacciati dai condizionamenti ideologici della politica culturale del governo tedesco, rappresentata dalla presenza della Ambasciatrice, alla quale avremmo voluto chiedere le statistiche ufficiali delle persone penalmente perseguite dal 1994 ad oggi e da me stimate per difetto in 200.000. Non siamo particolarmente interessati a seguire la faida, ma lo siamo invece a leggere l’opera sterminata di Heidegger in oltre 100 volumi. Dei rapporti fra Carl Schmitt e Martin Heidegger si hanno poche tracce. L’unico rapporto che avevo potuto indicare, a chi mi chiedeva al riguardo, era la persona di un comune allievo: Günther Krauss, soprattutto allievo di Schmitt, ma che aveva frequentato qualche lezione di Heidegger, di cui ricordava la voce cavernosa... Si sapeva poi di una lettera di Heidegger presente nel Nachlass schmittiano... Questa lettera è stata pubblicata lo scorso anno, 2014, nel Band II, della Nuova Serie di Schmittiana, inaugurata dal compianto Piet Tommissen. Dal nostro computer ne facciamo “omaggio” ai nostri Cinque Lettori come “contributo esterno” al Convegno heideggeriano ancora in corso. La corrispondenza si trova alle pagine 181-183 ed è preceduta da una introduzione di Reinhard Mehring. Insieme alla trascrizione e alla traduzione, che sarà fatta in seguito, si fornisce direttamente l’immagine, che per una migliore leggibilità, si può ingrandire, cliccandoci sopra.

IX. Martin Heidegger

Heidegger und Schmitt wurden vor 1933 schon als komplementare Autoren wahrgenommen, die sich wechselseitig erhellten. Leo Strauss und Helmut Kuhn waren beide von der Philosophie Martin Heideggers (1889-1976) stark beeindruckt. Bald schrieben mit Herbert Marcuse und Karl Löwith auch zwei enge Heidegger-Schüler kritische Auseinandersetzungen mit Schmitt. Vor und nach 1933 finden sich aber wohl keine direkten persönlichen Kontakte. “Ging nicht zu Heidegger”, notiert Schmitt am l. Dezember 1927 - im Erscheinungsjahr des Begriffs des Politischen wie von Sein und Zeit - ins Tagebuch, als Heidegger in Bonn einen Vortrag über “Kants Lehre vom Schematismus und die Frage nach dem Sinn von Sein” hält. Nur im Jahre 1933 gab es wohl einen politischen Schulterschluss und eine persönliche Begegnung. Im Schmitt-Nachass befindet sich ein Widmungsexemplar der Rektoratsrede über Die Selbstbehauptung der deutschen Universität (191)

191 Martin Heidegger, Die Selbstbehauptung der deutschen Universität. Rede gehalten bei der feierlichen Obernahme de Rektorat der Universität Freiburg i. Br. Am 27.5.1933, Breslau 1933 (RW 265-24812); Schmitt besaß (RW 265-28106) auch die um Heideggers Rektoratsbericht ergänzte Neuausgabe von 1983 (Martin Heidegger. Die Selbstbehauptung der deutschen Universität - Das Rektorat 1933/34, Frankfurt 1983) mit Besitzvermerk (,.erhalten um Pfingst (Mai) 1983”). Der gesamten Text hat Schrnitt damals erneut durchgearbeitet und mit Randbemerkungen versehen.

mit der Widmung: ,,Mit deutschem Gruß/Heidegger” (RW 265-24812). Darunter steht ein Besitzvermerk “Carl Schmitt/Juli 1933”. Demnach erfolgte die Sendung der Rektoratsrede Wochen vor Heidegger Brief (RW 265-5839) vom 22. August. Das Widmungsexemplar ist mit Bleistiftunterzeichnungen ohne Randbemerkungen durchgearbeitet. Schmitt antwortete auf Heideggers Sendung der Rektoratsrede mit der gerade erschienenen Neufassung seines Begriffs des Politischen von 1933. Heidegger antwortete dann seinerseits auf Schmitts Gegengabe mit seinem Brief vom 22. August 1933, den Schmitt höchstwahrscheinlich am 27. August beantwortete, notierte er doch einen Antwortbrief stenographisch unter Heideggers Brief. Die Notizen konnten durch Hans Gebhardt weitgehend entziffert werden. Eine Berliner Begegnung am 8. oder 9. September 1933 ist wahrscheinlich. (192) Schon im Wintersemester 1933/34 (193) und dann WS 1934/35 setzte Heidegger ich dann umgehend kritisch mit Schmitts Begriff des Politischen auseinander, weshalb es nicht zu weiteren Kontakten kam. Schmitt las nach 1945 zahlreiche Schriften Heideggers. Nachgelasene Materialien zu Heidegger und dessen Schülern (Lowith u. a.) finden ich zahlreich. Der Abdruck von Heideggers Brief in der Heidegger-Gesamtausgabe (GA Bd. XVI, 156) berüsichtigt Schmitts Marginalien nicht und lost einige Abkürzungen auf.

192 Dazu vgl. Reinhardt Mehring,  9. September 1933 im Kaiserhof? Martin Heidegger und Carl Schmitt  - nach neuer Quellenlage, in: Merkur 67 (2013), 73-78; ders., Heideggers Winter Semester 1934/35, in: Zeitschrift für Ideengeschichte Jg. 7, Heft l (2013), 118- 121.
193 Martin Heidegger, Über Wesen und Begriff von Natur, Geschichte und Staat, in: Heidegger-Jahrbuch 4 (2009), S. 53-88.

l. Martin Heidegger an Carl Schmitt
Brief, hs., LAV NW, Abt. Rheinland, RW 265-5839
Freiburg i. Br. 22. August [19]33.

Sehr verehrter Herr Schmitt!

Ich danke Ihnen für die Ubersendung Ihrer Schrift, die ich in der zweiten Auflage schon kenne u.[nd] die einen Ansatz von der großten Tragweite enthält.

Ich wünsche sehr, mit Ihnen darüber einmal mündlich sprechen zu konnen.

An Ihrem Zitat von Heraklit hat mich ganz besonders gefreut, daß Sie den Βασιλεύς nicht vergessen haben, der dem ganzen Spruch erst einen vollen Gehalt gibt wenn man ilio ganz auslegt. Seit Jahren habe ich eine solche Auslegung mit Bezug auf den Wahrheitsbegriff bereit liegen - das ’έδειξε und ’εποίησε, die im Frag.[ment] 53 vorkommen.

Aber nun stehe ich selbst mitten im πόλεμος u. Literarisches muß zurücktreten.

Heute möchte ich Ihnen nur sagen, daß ich sehr auf Ihre entscheidende Mitarbeit hoffe, wenn es gilt, die juristische Fakultät im Ganzen nach ihrer wissenschaftlichen und erzieherischen Ausrichtung von Innen her neu aufzubauen.

Hier ist es leider sehr trostlos. Die Sammlung der geistigen Kräfte, die das Kommende herauffuhren sollen, wird immer dringender.

Für heute schließe ich mit freundlichen Grüßen

Heil Hitler!
        Ihr Heidegger

2. Carl Schmitts stenographische Randnotiz eines Antwortbriefes
27/8 33

Sehr verehrter Herr Heidegger,

vielen Dank für Ihren Brief. Auch ich würde mich sehr freuen, mit Ihnen mündlich sprechen zu können. Wie groß meine Freude ist (über Ihre Wahrnehmung zum πόλεμος bitte ich Sie aus den beiliegenden Andeutungen meiner kleinen Antrittsvorlesung (194) zu entnehmen. Auch meinen Willen zu jeder Art von Mitarbeit dürfen Sie darin erkennen. Ich weiß, um wie viel es geht. Ihre Rede (195) war ein großartiger Aufruf. Ob ihn die Vielen verstehen, ist gleichgültig. Ich kenne auch me Macht des [.........] WilIen , der Vergleich als eines [....] Modus, das bewundert [......]

194 Die Kölner Antrittsrede Reich - Staat - Bunde wurde erst* 1940 in Carl Schmitts Positionen und Begriffe, Berlin 1940; S. 190-198 veröffetllicht, in diesem Band S. 42-51.
195 Rektoratsrede.

* Dal nostro Computer ne estraiamo subito la nostra traduzione, avvertendo l’opportunità di rileggere quello stesso testo ora come interlocuzione con Heidegger. Il testo che segue è illustrato con le pagine tratte dai Tagebücher di Schmitt, finora usciti, dove compare il nome Heidegger. Per leggerle distesamente ingrandire sull’immagine.

CARL SCHMITT
22.
REICH - STATO - FEDERAZIONE (*)
 (1933) 


Prolusione tenuta all’università di Colonia il 20 giugno 1933.

La materia di insegnamento del diritto pubblico partecipa con particolare immediatezza alla vita dei popoli e degli Stati. Da due decenni essa è perciò toccata dallo stesso rapido sviluppo e movimento, che ha afferrato tutto il nostro mondo. Questa materia anche nella sua particolarità scientifica si trova nella più grande vicinanza esistenziale con il destino dei popoli e degli Stati. Contrapposizioni di opinioni dottrinali appaiono subito come contrapposizioni politiche. Non c’è nessun risultato scientifico della dottrina del diritto pubblico che non possa essere subito utilizzato dall’una contro l’altra parte, e la lotta degli argomenti passa immediatamente oltre nella lotta politica dei popoli e dei partiti. Così questa materia riveste attualità e interesse in un modo spesso assai pericoloso e fatale per la vita.

* La questione centrale di questa lezione, il rapporto fra i concetti di Reich, Stato e Federazione nella storia costituzionale tedesca, io l’ho trattata più volte in conferenze del semestre invernale 1932/33 e della primavera 1933 sotto l’impressione delle esperienze del processo Prussia-Reich davanti all’Alta Corte di Stato in Lipsia, in particolare nel mio discorso per la festa di fondazione del Reich del 18 gennaio 1933 nell’Alta Scuola per il Commercio in Berlino. La prolusione in Köln dà la redazione definitiva, stabilita attraverso le esperienze della mia collaborazione alla legge sul governatore del Reich del 7 aprile 1933. Cfr. il resoconto in Westdeutschen Beobachter, Colonia, 21 giugno 1933.

Ogni studioso di una simile materia, che è consapevole di questa particolarità e della responsabilità scientifica connessa, conosce anche questo pericolo. Taluni hanno sperato per un momento che sarebbero ritornate presto le condizioni garantite del periodo prebellico e si potesse riguadagnare la quiete non pericolosa che allora regnava almeno in apparenza. Essi scambiano la sicurezza di una situazione politica del tutto determinata con l’oggettività ed il realismo del pensiero su questa situazione. Già oggi è così che tutti i tentativi di svignarsela in una sicurezza priva di problemi ci appaiono come un’abdicazione, come una rinuncia alla scienza del diritto pubblico. La fuga dalla problematica del tempo in un passato non problematico o in una purezza priva di riferimenti e di oggetto, non ha nemmeno più l'apparenza della scientificità in sé. Il sentiero che porta lontano dalla vita concretamente presente può condurre solo là dove dei morti parlano su ciò che è morto.

Se io qui parlo intorno al Reich, allo Stato e alla federazione, uso tre parole, di cui ognuna è in sommo grado nello stesso tempo forte di storia e piena di presente, ma che io tratto intenzionalmente ed espressamente come concetti. Da ciò potrebbe sorgere l’equivoco come se io volessi parlare in una falsa astrazione di vuote forme e menare avanti la triste materia, che con parola di rimprovero si indica come “giurisprudenza dei concetti”. Ci sono ad ogni modo molti simili concetti astratti in un cattivo senso. Ma ci sono anche altri concetti pieni di vita e di sostanza, e fa parte proprio del compito della scienza del diritto pubblico riconoscere e contrassegnare i concetti autentici. Nella lotta politica i concetti e le parole divenute concettuali sono tutt’altro che un vuoto suono. Essi sono espressione di contrapposizioni elaborate in modo penetrante e preciso e costellazioni amico-nemico. Così inteso, il contenuto della storia mondiale accessibile alla nostra consapevolezza per tutte le epoche è diventato una lotta intorno a concetti e parole. Naturalmente non sono cose vuote, ma parole e concetti carichi di energia e spesso armi assai acuminate. Vuote e astratte in un senso cattivo sono esse solo quando il campo di lotta e l’oggetto della disputa vengono meno e sono divenute non interessanti. Io vi ricordo la lotta intorno alla formula “per grazia di Dio”; oppure ad esempio le riflessioni che si sono fatte nell’inverno 1870/71 circa il fatto se al presidente della federazione del Reich bismarckiano si dovesse dare il titolo di ”imperatore dei tedeschi”, “imperatore della Germania” o “imperatore tedesco”. Ricordo inoltre l’inevitabile disputa sulle cosiddette formalità in tutti i grandi processi politici intorno alla questione di chi sia capace di esser parte davanti ad un supremo tribunale di Stato o davanti ad una corte internazionale, chi legittimato attivamente, autorizzato all’intervento ecc. Apparentemente piccole deviazioni nella redazione concettuale possono qui essere di una portata pratica incalcolabile. In questo senso del tutto pratico di una concettualità intesa concretamente appare tutta la storia tedesca di passione dell’ultimo mezzo secolo come la storia dei tre concetti “Reich, Stato, federazione”.

Il concetto di Stato ha distrutto il vecchio Reich. Se Pufendorff nel XVII secolo definisce il Reich come un monstrum, egli con ciò vuoI dire che non è uno Stato. Il concetto di Stato e di sovranità statale gli appare giuridicamente comprensibile e senz’altro plausibile. Il Reich invece è divenuto incomprensibile e giuridicamente privo di senso, proprio perché ha vinto il concetto di Stato. Sul territorio del Reich tedesco si sviluppano Stati e la superiorità giuridica-decisionista del concetto di Stato di fronte al concetto di impero appare alla formazione concettuale della scienza giuridica così grande che il concetto di Stato fa saltare dall’interno il Reich. Dal XVIII secolo in poi non c’è più assolutamente il diritto del Reich, ma ancora solo il diritto dello Stato. Il Reich è concepito ancora solo come uno Stato composto da Stati o un “sistema di Stati”. Lo scritto del giovane Hegel dell’anno 1802 sulla ”Costituzione del Reich tedesco” incomincia con la frase lapidaria “la Germania non è più uno Stato”. Il fatto che non è più uno Stato è il motivo del perché essa “non può più essere compresa”. Lo Stato tedesco ha distrutto il vecchio Reich tedesco. Il concetto di Stato era il peculiare nemico del concetto di Reich. Il diritto diventa diritto dello Stato e diritto statale. Perfino la filosofia diventa filosofia dello Stato ed il più grande filosofo, Hegel, fugge dal Reich divenuto incomprensibile alla volta di un concetto di Stato divenuto tanto più illuminante.

Per la storia dell’idea di Reich è di grande importanza il fatto che allora sorsero subito anche due nuovi imperi, il controimpero francese di Napoleone I e l’impero sostitutivo della monarchia asburgica; quello espansivo ed offensivo, questo difensivo e conservativo. Ma è altrettanto importante che intorno a questo stesso periodo dopo il 1806 si sviluppa la vera e propria statualità della Prussia in modo tanto più chiaro ed intenso, mentre il resto, la cosiddetta terza Germania, diventava una federazione di Stati. Non dimentichiamo mai che tutto il cosiddetto diritto pubblico federalistico del XIX secolo con tutte le sue antitesi di federazione di Stati e Stato federale, diritto dei popoli e diritto dello Stato, trattato e costituzione è sorto nell’epoca della federazione del Reno. Gli Stati tedeschi, che in quanto Stati hanno scardinato il Reich, dichiarano alla loro uscita il 10 agosto 1806 che essi fondano “una federazione adeguata alle nuove situazioni” a protezione della sovranità statale e dell’indipendenza dei membri della federazione e sotto il protettorato e la garanzia dell'imperatore dei francesi. La letteratura di diritto pubblico e costituzionale del periodo della federazione del Reno costruisce subito un sistema del Reich. E che genere di Reich! Da Carl Salomo Zachariä (“Il diritto pubblico degli Stati della federazione del Reno e degli Stati federali”, Heidelberg 1810, p. 129) è dipinto il quadro seguente: tutti gli Stati europei si dividono in due classi, in quelli che “sono membri della grande associazione europea di Stati, al cui vertice sta l’imperatore dei francesi, in parte come protettore contrattuale della federazione, in parte come capo della famiglia imperiale, e in Stati che non sono entrati in questa associazione europea di Stati”. Fra gli Stati della prima classe, cioè nella grande “associazione” europea “di Stati” dell'imperatore dei francesi, appartengono gli spagnoli, gli Stati italiani, l’Olanda, la Svizzera, il ducato di Varsavia e gli Stati federali del Reno. Gli altri Stati europei sono o ad essa alleati o amici: la Prussia, l’Austria e la Danimarca; oppure sono nemici della federazione europea: l’Inghilterra ed i suoi alleati federali. La federazione del Reno appare come parte di un sistema imperiale a guida francese, al quale è aggregato un sistema federale (con Russia, Austria, Prussia). L’epoca dell’egemonia francese fu troppo breve perché si fosse potuto sviluppare un compiuto diritto costituzionale, sia del Reich sia della federazione. Ma anche questo breve intermezzo di sei anni rivela il rapporto fra i concetti di Reich, Stato e federazione, caratteristico per lo sviluppo tedesco dell’ultimo secolo. La federazione degli Stati tedeschi è stata sempre orientata contro il Reich tedesco. Il concetto di federazione era qui sempre l'alleato del concetto di Stato contro il concetto di Reich. Il senso della federazione, cioè protezione, garanzia e guida dei membri della federazione si rivolge contro il Reich tedesco. Il titolare egemonico della federazione si trova nella federazione del Reno fuori della Germania e il dualismo tipico di tutto il successivo federalismo tedesco è qui il dualismo di Francia e Germania, la forma peggiore e più triste di un dualismo, perché nega e sopprime l’unità tedesca in quanto tale.

La federazione di Stati, il “Deutscher Bund”, realizzata nel congresso di Vienna, fu per un mezzo secolo (dal 1815 fino al 1866) la forma dell’unità politica della Germania. Anche qui l’idea di federazione aveva il senso di una garanzia della statualità contro il Reich. Stato e statualità sono anche qui contrapposizioni concettuali polemiche contro il Reich. Il Reich era andato in rovina per il fatto che non era uno Stato; la federazione degli Stati tedeschi con la sua garanzia della statualità altresì non vuole essere un Reich. Al grido generale del popolo tedesco di un Reich essa vuol dare un surrogato compromissorio, ma in netta alternativa fra diritto dei popoli e diritto dello Stato solo come associazione di diritto internazionale. La titolarità della federazione si divideva in una compresenza di tre grandezze: le due grandi potenze guida della Prussia e dell' Austria, ma il cui territorio si trovava in parte fuori della federazione e la cosiddetta terza Germania, il cui Stato più importante, la Baviera, poteva pretendere per sé il fatto che essa era uno Stato puramente tedesco, situato dentro il territorio della federazione e la cui pretesa di guida, oggi non più molto comprensibile, era dovuta a questa situazione; analogamente per taluni aspetti al sovrappeso sproporzionato dell’Ungheria nella monarchia asburgica, nella quale tutte le restanti nazioni stavano con almeno un piede fuori della monarchia. Il dualismo tipico della Federazione tedesca è un dualismo dell' egemonia, che porta in un conflitto le due grandi potenze dell'Austria e della Prussia.

La vittoria prussiana del 1866 ha eliminato questo dualismo, ha spinto in disparte il regno sostitutivo austriaco ed ha introdotto lo Stato federale “Deutsches Reich”. La costituzione di questo “Secondo Reich” parla ancora - per riprendere la felice espressione di Carl Bilfinger - «la lingua della federazione». Si indica un «legame eterno” dei principi; è nominato come organo principale un “Consiglio della federazione” (Bundesrat), mentre la rappresentanza democratica di tutto il popolo tedesco si chiama Consiglio del Reich (Reichstag), ecc. Il caratteristico dualismo è qui di duplice natura: un dualismo della costruzione costituzionale, che cerca di unire i due principi contrapposti di monarchia e democrazia, e un dualismo di Prussia e Reich, dietro il quale si trova il dualismo di Stato singolo e Stato collettivo, conservatorismo e democrazia, con una divisione interamente dualistica delle competenze (legislazione del Reich ed esecutivo dello Stato) e con un concetto intermedio come “sorveglianza del Reich” in quanto correlato di una simile divisione di competenze. La scienza del diritto pubblico si sforza di gettare un ponte sopra il dualismo. Ma essa però non è stata in grado di superare la vera e propria disgrazia, cioè l’antitesi di Federazione di Stati e Stato federale, diritto dei popoli e diritto dello Stato, trattato e costituzione. Del resto, nei primi anni, dopo il 1867, il timore davanti al concetto di “Reich” non era ancora assai diffuso, poiché si ricordava ancora che all'essenza del Reich apparteneva il non essere uno Stato. Così diceva Georg Meyer nel 1868: «L’espressione Reich è usata in impieghi così molteplici che propriamente si può solo dire che esso indica un grande complesso di Uinder con parti diverse e fino ad un certo grado autonome». Bluntschli dà una definizione particolarmente interessante nella sua “Logica dello Stato” nel 1872. Vorrei qui ricordarla perché essa non identifica semplicemente il Reich con lo Stato federale ed a torto è stata del tutto dimenticata. Bluntschli parla di un “Reich federale tedesco”, di uno «Stato principale in quanto creatore della federazione, senza la quale il Reich non può esistere» e definisce: «Il Reich federale tedesco è nella sua essenza un’unione in congiunzione alla potenza principale ed originaria della Prussia, ma assurto ad una presentazione collettiva comune del popolo tedesco».

La costituzione di Weimar del 1919 ha abolito l’egemonia della Prussia ed al tempo stesso ha lasciato continuare ad esistere il Land di Prussia in tutta la sua estensione. Essa non ha trovato nessun nuovo principio costruttivo come sostituto della precedente costruzione egemonica ed ha commesso l’errore di costruzione catastrofico abbastanza spesso discusso negli ultimi anni. Essa abolisce il fondamento federale, anche statal-federale; essa non parla più nemmeno “il linguaggio della federazione”, ma evita la parola “federazione” e non dice più “Consiglio della federazione” (Bundesrat) ma “Consiglio del Reich” (Reischsrat). Il forte incitamento di Friedrich Naumann nella commissione costituzionale di Weimar di chiamare da adesso in poi il Reich tedesco (Deutsche Reich) “Federazione tedesca” (Deutscher Bund) non fu presa sul serio. Per questo la dottrina pubblicistica della costituzione di Weimar nei primi anni dopo il 1919 partiva dal fatto che ormai fosse stata abolita la statualità dei Länder e che la Germania non fosse più uno Stato federale. Ma il conflitto fra il Reich e la Baviera dell’anno 1923 decise la questione in modo favorevole all’altra tendenza di diritto statal-federale guidata dalla Baviera e cosÌ divenne dottrina dominante che anche la costituzione di Weimar sia una costituzione da Stato federale. Con il colpo prussiano del 20 giugno 1932 il Reich ha tentato di “incassare” la Prussia e di superare in questo modo il dualismo fra Prussia e Reich. Questi avvenimenti sono ancora nel ricordo di tutti, cosicché io non devo diffondermi al riguardo. Solo ad un punto vorrei accennare, perché mostra il significato pratico delle costruzioni pubblicistiche: l’Alta Corte di Stato nella sua nota sentenza del 25 ottobre 1932 ha basato la sua decisione interamente sulla
costruzione del diritto statal-federale. Essa conferma i concetti del “governo regionale autonomo”, la pretesa di un governo regionale parlamentare secondo l’art. 17 comma 2 come un diritto fondamentale, il diritto alla propria politica; essa conferma la costruzione federalistica di un abisso incolmabile fra il governo di un Land e il governo del Reich, partendo dal fatto che mai da parte del Reich possa essere rimosso o perfino insediato un governo della federazione. Essa fa tutto questo non in qualche modo sulla base del tenore letterale della costituzione di Weimar, ma soltanto sotto l’impressione di una determinata teoria della costituzione e della formazione dei concetti di diritto statal-federale, niente altro che il risultato finale di un’evoluzione del concetto di Stato orientata contro il concetto di Reich, e parimenti del suo alleato, un concetto federalistico di Federazione, che dal punto di vista del diritto costituzionale è stato il vero garante della statualità dei Uinder e della non statualità del Reich.

È questo, in un breve schizzo, il significato politico dei concetti di Reich, Stato, federazione e del tiremmolla lungo un secolo intorno alle definizioni di federazione di Stati e Stato federale. Per noi oggi la questione decisiva è: come si comportano i tre concetti l’uno con l’altro? E soprattutto: come dobbiamo noi comportarci verso di essi nella situazione presente? Ognuno dei tre concetti ha per noi tedeschi la sua peculiare forza ed efficacia. Le nostre rappresentazioni del Reich sono radicate in una grande storia tedesca millenaria, la cui forza mitica sentiamo tutti. Su ciò non ho bisogno qui di parlare oltre. Ma c’è presso di noi anche un mito dello Stato, e la parola Stato ha pure un’eccezionale forza e tradizione storica che va assai oltre il significato meramente oggettivo della materia. Infatti, la Prussia, il tipo di uno Stato compiuto, proprio sulla base delle sue peculiarità specificatamente statuali ha avuto la forza di produrre l'unificazione statal-federale del Secondo Reich. La parola “Stato” eccita il nostro sentimento tedesco, da quando il grande re tedesco nell’estrema disperazione della guerra dei sette anni, dopo la battaglia di Kolin,
pensò "che un principe non può sopravvivere al suo
Stato", e pensando in questo modo al suo Stato trovò davanti
al suicidio il sostegno spirituale e la salvezza. « Qui si
destava il mio attaccamento (attachement) allo Stato »,
scrive egli nel settembre 1757 a sua sorella, margravia di
Bayreuth, in una commovente e importante lettera, decisiva
per la storia del concetto di Stato. Al di là dell' elemento
sentimentale la parola e il concetto di Stato hanno
poi avuto una crescita nell'elemento metafisico, specialmente
da quando la nostra ultima grande filosofia culmina
nella filosofia dello Stato di Hegel. D'altro canto in al tra

maniera, ma non con minore forza è divenuta poi in ultimo
anche la parola federazione una portatrice di grandi ricordi
e di energie politiche. Essa è vitale a partire dalla storia
medievale delle leghe di città tedesche e leghe di cavalieri
e dalle federazioni di ogni specie fino alle tracce di pensiero
federale nei movimenti federativi della nostra gioventù
tedesca. Perfino nell'utilizzazione abusiva della designazione
"Volkerbund" la traduzione tedesca ufficiale, ma
inesatta di "Société des Nations", ha potuto concedere alla
formazione ginevrina triste per le orecche tedesche ancora
un suono idealistico.
Ma per questo motivo - cioè perché ognuno dei nostri
tre concetti è per noi più di uno schema concettuale
astratto o una vuota formula - la scienza giuridica tedesca,
se vuole restare consapevole della sua responsabilità
politica e della realtà della nostra attuale situazione - deve
sempre considerare con attenzione quanto è facile far giuocare
in modo pericoloso l'un concetto contro l'altro.
Quanto spesso nella nostra storia tedesca fino a quella più
recente si è ripetuto questo abuso! Tanto l'efficacia e la
portata politico-pratica dell'impiego singolo di ognuno di
questi tre concetti quanto il loro reciproco rapporto sono
spesso cambiati. Sotto la profonda impressione delle esperienze
del nefasto processo PlUssia contro Reich davanti
all'Alta Corte di Stato in Lipsia dipendeva da me il porre
in risalto in tutta la sua asprezza proprio il legame pericoloso
che il concetto di "Stato" nella nostra storia giuridica
ha contratto con il concetto di "federazione". Su questo legame
di un pensiero avente ad oggetto lo Stato e il pensiero
avente per oggetto la federazione si basa il grande pericolo
politico di un federalismo, del quale molti, che parlano
a favore del Reich ed a favore della federazione e contro
lo Stato, non sembrano assolutamente siano consapevoli.
Anche il concetto di "Stato federale" è soltanto un
concetto di compromesso oggi superato da lungo tempo e
che risente di questa origine storica. Superando le diffe

renze fra federazione di Stati e Stato federale è riuscito ad
una specie determinata di pensiero federalistico di evitare
che il Reich divenisse uno Stato effettivo. Questo è l'elemento
decisivo. Con l'allettante motivazione che il "Reich"
è qualcosa di infinitamente più elevato e superiore allo
"Stato" il Reich doveva essere meno e restare meno di uno
Stato. Questo è il pericolo politico del quale io volevo parlare.
A questo pensiero federalistico è riuscito di portare il
grande problema dell'unificazione nazionale della Germania
sempre di nuovo nella camicia di forza della domanda:
federazione di Stati o Stato federale? A questo stesso federalismo
è riuscito di disconoscere al Reich il suo diritto allo
Stato ovvio all'epoca d'oggi ed alla piena statualità, sebbene
nella situazione storica data e nella realtà politica data
del nostro tempo non possa esserci nessun Reich senza
forte Stato. A questo federalismo che si richiama al
"Reich" è riuscito nello stesso tempo di imporre nei confronti
del Reich la statualità autonoma degli Stati singoli e
dei Lander come una caratteristica essenziale dello Stato
federale a spese di un sicuro potere del Reich che decida il
caso di conflitto. lo penso questo, quando dico che i concetti
di Stato e federazione si sono uniti nella nostra storia
contro il concetto di Reich. Tutte le numerose pretese costruite
"dal punto di vista del diritto statal-federale", le
istanze e le argomentazioni dei Lander e delle frazioni del
Landtag nel processo davanti all' Alta Corte di Stato durante
l'inverno 1932 mi hanno svelato la pericolosità di
questo federalismo. I tentativi del federalismo bavarese nell'ultimo
inverno andavano nella stessa direzione e cercavano
di adoperare un concetto federalisticamente-federati vamente
falsificato di Reich per conservare ai Lander la
loro propria statualità a spese della statualità del Reich.
Simili sforzi malgrado l'impiego della parola "Reich" si
trovano praticamente del tutto nella direzione di uno sviluppo
che a partire dal 1923 è divenuto decisivo anche nel
pensiero pubblicistico. Essi hanno portato in Germania ad

renze fra federazione di Stati e Stato federale è riuscito ad
una specie determinata di pensiero federalistico di evitare
che il Reich divenisse uno Stato effettivo. Questo è l'elemento
decisivo. Con l'allettante motivazione che il "Reich"
è qualcosa di infinitamente più elevato e superiore allo
"Stato" il Reich doveva essere meno e restare meno di uno
Stato. Questo è il pericolo politico del quale io volevo parlare.
A questo pensiero federalistico è riuscito di portare il
grande problema dell'unificazione nazionale della Germania
sempre di nuovo nella camicia di forza della domanda:
federazione di Stati o Stato federale? A questo stesso federalismo
è riuscito di disconoscere al Reich il suo diritto allo
Stato ovvio all'epoca d'oggi ed alla piena statualità, sebbene
nella situazione storica data e nella realtà politica data
del nostro tempo non possa esserci nessun Reich senza
forte Stato. A questo federalismo che si richiama al
"Reich" è riuscito nello stesso tempo di imporre nei confronti
del Reich la statualità autonoma degli Stati singoli e
dei Lander come una caratteristica essenziale dello Stato
federale a spese di un sicuro potere del Reich che decida il
caso di conflitto. lo penso questo, quando dico che i concetti
di Stato e federazione si sono uniti nella nostra storia
contro il concetto di Reich. Tutte le numerose pretese costruite
"dal punto di vista del diritto statal-federale", le
istanze e le argomentazioni dei Lander e delle frazioni del
Landtag nel processo davanti all' Alta Corte di Stato durante
l'inverno 1932 mi hanno svelato la pericolosità di
questo federalismo. I tentativi del federalismo bavarese nell'ultimo
inverno andavano nella stessa direzione e cercavano
di adoperare un concetto federalisticamente-federati vamente
falsificato di Reich per conservare ai Lander la
loro propria statualità a spese della statualità del Reich.
Simili sforzi malgrado l'impiego della parola "Reich" si
trovano praticamente del tutto nella direzione di uno sviluppo
che a partire dal 1923 è divenuto decisivo anche nel
pensiero pubblicistico. Essi hanno portato in Germania ad un sistema costituzionale che può essere giustamente caratterizzato come “Stato federale dei partiti”. Di fronte a questo il Reich era spinto sulla difensiva. Per il mantenimento della necessarissima unità politica dipendeva dai poteri eccezionali, dai poteri del presidente del Reich secondo l’art. 48 della costituzione di Weimar. Come sempre nella nostra precedente storia vi era anche qui l’unione dei concetti di Stato e federazione, che fu dannosa al Reich tedesco, in federazione di Stati, come in Stato federale, in un sistema monarchico-dinastico come in uno pluralistico-partitico. Ma all’inizio del nostro anno 1933 il risultato era che la Germania divenne una formazione senza sicura guida politica e sempre ancora malata del più pericoloso ed intimo dualismo, quello fra Reich e Prussia. Il colpo prussiano del 20 luglio 1932, che aboliva il governo Braun-Severing, aveva unito in una sola mano precisamente il governo del Reich ed il governo prussiano, ma non poteva mantenere costantemente l’unione di Reich e Prussia.

Solo il nuovo Stato della rivoluzione nazionale, sorto con la direzione politica di Adolf Hitler, ha risolto il problema vecchio di secoli con la legge sul governatore del Reich del 7 aprile 1933. I governatori del Reich sono sottocapi del capo politico Adolf Hitler. Essi esercitano il potere del Land in nome del Reich. Il parlamentarismo dei Länder, la cattiva radice dello Stato federale dei partiti, è abolito. Con una frase lapidaria esso è colpito nel cuore: “Le votazioni di sfiducia del Landtag contro presidenti e membri di governi del Land sono inammissibili”. Anche questo ci sembra oggi già superato. Così a fondo questa soluzione del grande problema ha abolito la vecchia contrapposizione di Reich, Stato e federazione. Non è un semplice, felice colpo di mano, non una mera improvvisazione, ma una soluzione costruttiva ben pensata fino in fondo, che si trova solo nel più stretto contesto con la costruzione complessiva della nuova unità. Questa poggia su tre colonne: sull’apparato statale delle autorità, sull’organizzazione del partito che regge lo Stato e su un ordinamento sociale corporativo. Una direzione politica assai energica, che proviene da un partito che regge lo Stato, porta le più svariate parti e organizzazioni nel loro giusto rapporto. La forma anonima e camuffata di esercizio del potere politico del precedente Stato federale dei partiti è superata. Responsabilità politica e onorabilità politica sono adesso di nuovo possibili, dopo che nel sistema dello Stato costituzionale liberale erano divenute cose prive di senso ed impossibili. La nostra lezione ha tentato di esporre in una breve ora sulla scorta di tre concetti una problematica vecchia di un secolo. Quando vengono discussi i rapporti reciproci dei tre concetti, deve necessariamente originarsi un vuoto ed astratto trastullo concettuale, se sono proprio solo vuoti e astratti concetti quelli che in tal modo si legano l’uno con l’altro o si contrappongono l'uno all'altro. Ma i concetti di Reich, Stato e federazione sono anche come concetti una parte della enorme realtà politica di cui essi parlano. Non sono etichette nominalistiche, finzioni normativistiche, parole ad effetto meramente suggestive. Sono portatrici dirette di energie politiche e fa parte della loro reale forza che esse siano capaci di una formazione concettuale giuridicamente convincente.

Per questo anche la lotta intorno ad esse non è una disputa intorno a vuote parole, ma una guerra di immane realtà e presenza. È compito della scienza riconoscere questa realtà oggettivamente e guardarla con occhio sicuro. Se essa adempie al suo dovere verso la verità scientifica, allora vale anche per la lotta scientifica ciò che Eraclito ha detto della guerra: che essa è padre e re del tutto. Ma vale poi anche la continuazione meno spesso citata, ma non meno significativa di quella frase spesso citata della guerra come padre di tutte le cose. Poi questa lotta scientifica avrà in sé la sua verità e giustizia interna e produrrà qualcosa che in altro modo con mezzi umani non è producibile. Dopo infatti essa mostra come Eraclito prosegue: gli uni come dei, gli altri come uomini, gli uni essa rende liberi, gli altri schiavi. Questa è la suprema gloria anche della nostra scienza. Essa ci rende liberi, se noi superiamo la lotta. Questa libertà non è la libertà fittizia degli schiavi, che ragionano nelle loro catene, essa è la libertà di uomini politicamente liberi e di un popolo libero. Non c'è nessuna libertà scientifica in un popolo dominato dallo straniero e nessuna lotta scientifica senza questa libertà politica. Restiamo quindi anche qui consapevoli del fatto che ci troviamo nell’immediato presente del politico, cioè della vita politica intensa! Mettiamocela tutta per superare anche scientificamente la grande lotta, per non essere schiavi ma tedeschi liberi.

Update: è un articolo che appare sulla “Stampa”, dove si dice che si deve “smettere di leggere” un filosofo, Heidegger, per il suo “antisemitismo”, che non si sa bene cosa poi sia... Viene da pensare che da Dante Alighieri in poi, passando per ogni Paese, moltissimi pensatori, scrittori, poeti siano tutti da mettere all’Indice.

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(Segue)

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